venerdì 23 dicembre 2011

Ricordando Sergio Giatti.

E’ morto Sergio Giatti, già Sindaco di Villa Santina ai tempi del terremoto e per ben diciotto anni. Ci univa l’amicizia che è più vera quando nasce in momenti non facili. Era un uomo che sapeva travolgerti con la sua simpatia ed il suo entusiasmo. Se dovessi ricordarlo con una frase direi che era un Sindaco di “quelli di una volta”. Aveva quella che si chiamava “passione civile”, una pianta che si è estinta (salvo rare e fortunate eccezioni). Cosa intendo? Ora si amministra la cosa pubblica con la freddezza d’un ragioniere che gestisce una azienda. Giatti amministrava il suo Comune con la stessa passione con la quale seguiva la sua famiglia. Non è differenza da poco! Per la famiglia ci metti passione, entusiasmo, fai dei sogni, immagini un futuro, gioisci e soffri. Per un azienda badi all’equilibrio di bilancio ed all’attività che giustifica la sopravvivenza dell’azienda. E la tua, nel periodo nel quale l’azienda ti è affidata. Di Giatti mi resta il ricordo e l’esempio d’un Sindaco con una grande sentita e sofferta “passione civile”.

lunedì 19 dicembre 2011

La Carnia di Guido Della Schiava.

E’in edicola la nuova fatica letteraria di Guido della Schiava. Dopo l’originale e piacevole “Onorevole Pescivendolo” simpatica e curiosa presa in giro di personaggi locali, Guido fa un salto di qualità nell’impegno e negli obiettivi che si assume, e pubblica ora il frutto di una non facile ricerca, condotta con meticolosità, volta a ricostruire alcuni momenti significativi della storia del suo paese, Lovea di Arta Terme. Già nella copertina si anticipa in una sintesi molto efficace il contenuto. Carnia, dalle storie ignorate al mito del cavallino rampante è il titolo. Da un lato quindi l’obiettivo di fissare sulla carta le storie dei paesi per evitare che vadano dimenticate, ora che s’è persa la tradizione e quindi il piacere del raccontare. Dall’altro la volontà di mettere in evidenza i momenti nei quali la grande storia si incrocia con la piccola storia. E infatti un sottotitolo a margine riassume in una sorta di indice i temi trattati: le guerre, i disastri aerei, Francesco Baracca, Benito Mussolini, la gente comune, il logo Ferrari. Un mix che può far pensare ad un guazzabuglio di fatti accostati a caso e che invece costituisce la vera originalità del libro. Guido cerca di cogliere il riflesso che hanno lasciato nella storia locale i personaggi della grande storia, per far sì che da questo riflesso tragga importanza anche quello che è soltanto il quotidiano d’un piccolo paese. Punta la sua attenzione sui momenti della guerra, perché è quella la circostanza nella quale l’uomo al di là del rango, delle origini, della ricchezza, si trova a misurarsi con la morte, in una discriminante assolutamente individuale tra vigliaccheria ed eroismo. Carnia e non Lovea è giustamente il titolo del libro perché la storia d’uno dei paesi diventa emblematica della storia del territorio, e la storia del paese alle falde del Sernio, nella ricostruzione di Guido, si incrocia e si fonde con quella della Carnia. Centrale nel libro la figura di Francesco Baracca, eroe nazionale dell’aviazione. Una figura che viene ricostruita in tutta la sua Francesco Baracca ricorda come una delle sue “belle vittorie” l’abbattimento di un d’un aereo, finito nel Selet di Lovea. Ma il Selet è oggi un intrico di liane che copre i prati abbandonati, regno dell’edera, che si insinua nel muro degli stavoli. La storia di Baracca così si insinua nella storia dei luoghi, delle donne che si recavano ogni giorno ad accudire le bestie, dei prati che venivano falciati dei campi coltivati con grandi fatiche, in una parola, d’una Carnia che non c’è più. E come impigliate nel ricordo del grande aviatore, tornano a galla le storie della gente comune, o quella di Pra Rinaldo, il prete Archimede, le immagini della prima guerra mondiale, negli stralci dei diari dei preti del tempo, e quelle della seconda, con l’aereo che si schianta sul Sernio, ma anche le figure del Pastòr di Cuc e di Fulvia uccisi dai partigiani. E l’aereo abbattuto da Baracca nella prima guerra mondiale riporta, come fosse un eco, al rumore di quello che si è schiantato contro il Sernio nella seconda guerra mondiale, recuperato e trasformato in tanti arnesi di uso comune, dai bravi artigiani di Lovea. O all’episodio di fine guerra, con la scena dei paracadute che piovono sulla campagna del paese e con il bombardiere americano che si schianta tra gli stavoli del paese. La povera donna intenta alla mungitura “aprì a stento la porta e si affacciò all’uscio: di fronte, a pochi metri dall’ingresso della stalla, c’era la punta dell’enorme ala del bombardiere che quasi poteva toccare allungando il braccio” Momenti di spavento e di paura, ma anche occasione per dimostrare la l’umanità d’un paese che rischia cercando di nascondere gli aviatori perché non vengano trovati dai cosacchi, con Pra Rinaldo che non fa in tempo a vestire d’una sua tonaca uno dei malcapitati cercando di farlo passare per prete.. Come nel racconto così anche nella interessante documentazione fotografica, le immagini di rilievo nazionale si mescolano a quelle locali. Fianco a fianco, solo per fare un esempio, si trova Baracca che posa nel Salèt accanto all’aereo abbattuto e la prima squadra di calcio del paese di Lovea che giocava nel campo di calcio realizzato nei pressi del punto ove era finito l’aereo. Ma poi, come s’è detto, da Lovea l’obiettivo si apre sulla Carnia. Così Carducci che racconta della sua gita fino a Paularo, diventa una guida per riscoprire le bellezze della Val Chiarsò. Mentre Benito Mussolini soldato in Carnia nella prima guerra mondiale diventa una guida per conoscere la Carnia dei torrenti che “urlano tra le gole dei monti” e “intanto ad Illegio arriva il re” a controllare assieme a Cadorna i lavori della nuova strada per Lunze. Ma su tutti i racconti pare aleggi insistente ancora l’ombra di Francesco Baracca che volteggia nella val Chiarsò ed abbatte il suo quarto aereo. Che invece sarebbe il quinto. E “secondo il rituale bellico-cavalleresco del tempo la quinta vittima consentiva al pilota da caccia di assumere la qualifica di asso, ed era usanza che, a ricordo dell’avvenimento venisse adottata come insegna quella dell’ultimo nemico abbattuto. Era il cavallino rampante insegna della città di Stoccarda, che così divenne insegna dell’aereo di Baracca e che poi i genitori dell’eroe affidarono ad Enzo Ferrari. Un piccolo paese Lovea, ma anche altri piccoli paesi sono diventati famosi perché vi si sono svolti fatti importanti. Qui potrebbe aver avuto origine il mito del cavallo rampante della Ferrari. Guido ci crede. E s’immagina già il pellegrinaggio di tanti fans della Ferrari, a vedere il posto dove è nato il mito…Perché no?...

venerdì 16 dicembre 2011

Nuova gestione alla mensa comunale!

Finalmente c’è un cambio di gestione alla mensa comunale! Si rincorre la notizia negli ambienti solitamente bene informati, con quel “finalmente” che mi pare profondamente ingiusto per la memoria del precedente gestore Toni Job. Se poi il finalmente lo si ritrova sulla bocca di qualcuno che passava per suo amico, non si può non riflettere su quanto sia squallida la realtà sociale che stiamo vivendo…
Finalmente perché? Se è vero come è vero che per quaranta anni Toni è riuscito a fare della mensa uno dei più qualificati servizi di Tolmezzo, in un rapporto eccezionale di qualità e prezzo? Finalmente perché se con la sua esperienza è riuscito a far decollare la mensa della zona industriale di Amaro, togliendola da una situazione critica e rilanciandola come qualificato servizio per la zona industriale di Amaro?
Finalmente perché se anche i suoi eredi nella gara che li ha visti soccombenti hanno perso malgrado avessero offerto un prezzo per gli studenti, inferiore di cinquanta centesimi, con una migliore varietà dei menù. Finalmente perché? Se non sono ricorsi al trucco di offrire delle migliorie, caricandole poi sul costo del pranzo degli studenti della Carnia. Memori in questo dell’insegnamento di Toni, per il quale il gestore doveva guardare prima di tutto alla qualità del servizio percepita dagli utilizzatori. Per il rinnovo dell’arredo il Comune può ben ricorrere ad altri finanziamenti….
In tutto questo rincorrersi di finalmente c’è un dato certo, che gli studenti dal primo gennaio si ritrovano la sorpresa del costo del pasto che passa da 4,70 a 6.00 euro con un aumento quindi del 27%. Anche su questo possiamo dire: finalmente? Ma alla mensa comunale ricorrono solo gli studenti delle Frazioni e quelli dei paesi della Carnia, quindi al Consiglio Comunale di Tolmezzo la cosa può anche non interessare, come pare non interessi!!!...
Con buona pace di Toni Iob, nel cui ricordo, per l’amicizia e la reciproca stima che ci legava, e perché non vadano così presto dimenticati i meriti di chi pur facendo giustamente anche gli interessi della propria impresa, ha saputo tuttavia fare anche gli interessi della comunità, e dare del suo alla comunità del suo paese, ho sentito il dovere morale di farmi questo appunto. A futura memoria, visto che il passato di dimentica così finalmente!...

sabato 10 dicembre 2011

L’assedio della Carnia.

L’assedio della Carnia.: Una rilettura della storia della Resistenza in Carnia dalla quale nasce una serie di domande che mette in discussione la

domenica 4 dicembre 2011

Vivistolvizza, un modello per la montagna.



Cena alla Baita Alpina di Stolvizza, organizzata dall’Associazione “Aglio di Resia”, per valorizzare la gastronomia a base di aglio. In una sera di pioggia e di nebbia, scendi dall’auto con l’impressione d’essere finalmente arrivato all’ultima stazione prima della fine del mondo. Ma nella valle vive un cuoco allievo di Gianni Cosetti e persino di Gualtiero Marchesi. E quindi i piatti hanno una raffinatezza proprio da fine del mondo... Il discorso a tavola non può che finire sul tema dello spopolamento della montagna. Stolvizza ha soli cento abitanti, ma poco più in là a Coritis, quando finalmente è arrivata la strada, paradossalmente il paese si è svuotato. E’ ora solo un paese per fantasmi. Rimbalzano tra i commensali le solite lamentazioni. “La vita in montagna è sempre più difficile”. Ma tra una lamentela e l’altra, emerge il quadro di un piccolo paese, con un grande fermento di vita che si materializza nell’associazione “Vivistolvizza”. In cento si sono inventati l’idea originale d’un cavo di teleferica che per la notte di Natale viene riciclato a filo portante d’una grande stella illuminata che scende dalla montagna, su un originale presepe vivente partecipato dagli abitanti. E tutto il piccolo paese per le feste diventa una mostra di presepi, in una gara tra gli abitanti a chi lo fa più bello ed originale. Ma, se non bastasse, il piccolo paese ha saputo allestire anche il museo dell’arrotino, a ricordo dei tempi nei quali il piccolo borgo si era caratterizzato per un proprio movimento di “cramàrs” specializzati nell’arte di fare il filo ai coltelli ed alle forbici. C’è poi in tutta la valle il fermento per il quale siamo finiti lì a mangiare: tutti i paesi in competizione a chi riesce a coltivare meglio l’aglio, recuperando una tradizione che ha fatto famoso appunto l’aglio di Resia.
E malgrado tutto questo fermento di vita, fra una portata e l’altra, tutti giù a parlare della fine della montagna, perché la gente frana in pianura!...
Al rientro mi sono trovato a pensare che forse abbiamo sbagliato tutto. E’ da pazzi pensare di arrestare una frana. Meglio lasciare che trascini il bosco ed attendere che si assesti. Si deve intervenire dopo per ripiantare il bosco sulla nuova situazione che si è venuta a creare. Fuor di metafora, non ha senso cercare di tenere la gente in montagna, meglio lasciare che se ne vada e lavorare perché ne venga di nuova, attratta dal modello di vita di Stolvizza.
In città, nelle grandi ma anche in una piccola come Tolmezzo, tra abitanti della stessa via, neppure ci si conosce ed è già tanto se ci saluta. Finito il lavoro ognuno si ritira nel loculo del suo appartamento (se di villa trattasi la sostanza non cambia!). I pensionati, che hanno perso anche il momento socializzante del lavoro, vi passano l’intera giornata davanti alla televisione in attesa del loculo già prenotato nel camposanto. A Stolvizza, finita la necessità del lavoro, si comincia il “vivistolvizza”, e si passa al lavoro come integrazione del reddito, vissuto come una sorta di hobby produttivo.
Eppure c’è ancora chi sostiene che la vita nei loculi, davanti alla televisione sia migliore!
Bisogna ripartire da una azione di marketing per vendere “il vivistolvizza” come valore aggiunto per la qualità della vita…. Però, è vero, ci sono anche tanti disagi… Le scuole che chiudono, una generale mancanza di servizi e quindi una maggiore difficoltà a conciliare lavoro ed educazione dei figli…Ma è su questo versante che si sono commessi gli errori maggiori: s’è voluto portare in montagna il modello della pianura, senza capire che la montagna è diversa! Per questo erano nate le Comunità Montane: enti peculiari della montagna per dare le risposte peculiari di cui la montagna ha bisogno. Ma ora le stanno chiudendo!
E allora (sarà stato per colpa dell’aglio?) sono finito per sognare un diverso “vivistolvizza” come diverso “vivimontagna”, da proporre per favorire il reimpianto della gente in montagna, ora che la frana dello spopolamento sta assestandosi. Nel sogno a Stolvizza sono arrivate nuove coppie che hanno preferito vivere in una realtà nella quale tutte le case sono diverse, invece che in loculi tutti uguali, in un ambiente nel quale si ammirano le albe ed i tramonti nello scenario sempre diverso delle montagne. Non c’è l’asilo nido ma il Comune ha finanziato l’avvio dell’esperienza delle Tagesmutter, e c’è quindi qualcuno che accudisce i bambini in paese. Quando poi crescono, sia per la scuola materna che per quella elementare, c’è un assistente all’infanzia che con lo scuolabus passa per i paesi raccoglie i bambini, li porta a scuola, pensa al loro pranzo, ed alla sera li riporta a casa. I bambini frequentano necessariamente della pluriclassi, ma queste sono collegate in un progetto di teledidattica con le scuole di città, in uno scambio della diversità d’esperienze che serve sia agli uni che agli altri. La maggiore disponibilità di stimoli ambientali fa sì che nella scuola della Val Resia i risultati per gli alunni siano migliori rispetto a quelli della città. Ma anche i genitori sono venuti ad abitare quassù, perché operano in telelavoro. La Regione ha fatto un investimento intelligente, portando la banda larga fino a Coritis, e si può lavorare da casa (è purtroppo solo un sogno!).
Per la città il telelavoro sarebbe un disastro, costringerebbe la gente a rinunciare al momento di socializzazione favorito dall’ambiente di lavoro, ed a richiudersi nel loculo a tempo pieno. Ma a Stolvizza il momento socializzante è quello del dopo lavoro, quando si comincia a vivere il paese con il “vivistolvizza”. Nel lavoro ci si può quindi isolare in casa davanti al computer, per concentrarsi meglio e produrre di più. Per socializzare c’è anche il lavoro della coltivazione dell’aglio, a gara per stabilire come meglio si coltiva come si deve essiccare, come si deve vendere per ottenere il risultato economico migliore. Il Comune di Resia ha già fatto una cosa molto intelligente, trasformando l’acqua, la risorsa peculiare della montagna, in risorsa finanziaria, ed ora le entrate aggiuntive vengono impegnate per migliorare la qualità della vita migliorando i servizi. Si è quindi attivata, oltre a quelli per i bambini, una serie di servizi di prossimità che rendono invidiabile la qualità della vita a Stolvizza. Così si richiama e si invoglia a venire nuova gente, e persino Coritis torna ad essere abitato..
E’ stato solo un sogno, per colpa dell’aglio, o può essere questo “modello Stolvizza” il modello per ripiantare la gente nella montagna friulana?

venerdì 28 ottobre 2011

Cazzaso nella guerra partigiana.



Per chi non conoscesse la Carnia, Fusea e Cazzaso sono due paesi, frazioni del Comune di Tolmezzo, posti su un pianoro a mezza costa del monte Diverdalce, alle spalle di Tolmezzo per chi arriva da Udine. Due paesi fratelli, si potrebbe dire, perché nati e cresciuti nello stesso ambiente naturale. Ma, ma come spesso accade anche tra fratelli, i due paesi non sono mai andati d'accordo fra loro. Nei secoli hanno sempre cercato di enfatizzare ciò che li divideva, invece di apprezzare ciò che li univa. Fino a diversificare anche la parlata. A Fusea si fanno finire le parole in “a” per far dispetto a quelli di Cazzaso, che le fanno terminare in “e”. E viceversa!
Il Comune di Tolmezzo per risparmiare ha costruito un unico cimitero a metà strada fra i due paesi ma gli abitanti se l’erano diviso:metà era riservato ai morti di Cazzaso e metà a quelli di Fusea. Il giorno dei morti i fuseani ricordavano i loro defunti al pomeriggio, i cazzaini alla sera. Con il parroco di Fusea che al pomeriggio dava la schiena alle tombe dei cazzaini mentre quello di Cazzaso ricambiava il gesto alla sera, pregando con dietro alla schiena le tombe dei fuseani.
Sarà perché ora si sente meno lo spirito d'identità dei paesi, detto anche spirito di campanile, sarà perché c'è un unico prete officiante per i due paesi, la tradizione delle due funzioni religiose si è mantenuta, ma il prete si mette ora in mezzo, tra i due campi di tombe, anche perché nel frattempo il Comune ha deciso di unificare il cimitero, ed ora i morti fuseani e cazzaini vengono mescolati alla rinfusa, secondo un unico criterio di rotazione.
L’ultima volta che i due paesi hanno trovato l’occasione di diversificarsi fino a farsi del male è stato durante l’ultima guerra nel 1944, durante la lotta partigiana. Nell’estate di quell’anno a Tolmezzo c'erano i tedeschi mentre la Carnia, a dire dei partigiani, era stata liberata ed era in mano loro, che ormai stringevano d’assedio il capoluogo. Le falde del Diverdalce erano quindi diventate strategiche per tenere la situazione sotto controllo.
I fuseani, (gente che sapeva andare al sodo), se la filavano con i tedeschi, a Cazzaso c’era invece un presidio partigiano. Se la filavano, forse è troppo, non vorrei che suonasse offensivo. In realtà, intelligentemente, la latteria aveva fatto un accordo per vendere il latte ai tedeschi. Ogni giorno salivano da Tolmezzo due militari a prendere le taniche del latte che pagavano regolarmente. La latteria di Cazzaso invece veniva visitata regolarmente dei partigiani che si rifornivano a piacimento, con la minaccia delle armi, e non pagavano mai. Questa situazione per la quale i fuseani ci guadagnavano con i tedeschi ,mentre loro ci rimettevano con i patrioti, non andava giù ai cazzaini. Anche perché, se come si suol dire l'invidia è la più grande virtù dei carnici, i cazzaini non sono certo poco virtuosi..
I partigiani di Cazzaso decisero di porre fine all'ingiustizia. Fu così che un giorno i partigiani aspettarono al bivio per Cazzaso i due militi tedeschi che scendevano con le taniche di latte e li presero a fucilate. Anche oggi i cacciatori di Cazzaso vengono presi in giro perché, quanto a mira, lasciano molto a desiderare. I due militi sentendosi fischiare attorno le pallottole abbandonarono precipitosamente il latte e scesero il ripido sentiero che tagliava i tornanti della strada carrabile, con la velocità di un fulmine.
Ma ad onor del vero l’idea non era stata dei partigiani cazzaini, come ben dimostra il fatto che proprio quel giorno ben tredici donne di Cazzaso, ignare di tutto, erano scese a Tolmezzo per procurarsi del pane è qualcos'altro da mangiare. I partigiani, come s’è detto, andavano fieri del fatto d'aver cinto d'assedio Tolmezzo.. Ma era ben strano questo assedio! Da sempre nella storia sono gli assediati a dover fare le sortite per procurarsi del cibo, qui invece erano le donne degli assedianti a cercare di entrare a procurarsi del cibo, nella città assediata. Queste sono le stranezze della storia della Carnia!
Le donne di Cazzaso sapevano poco di storia e proprio quel giorno, si era a settembre, erano entrate a Tolmezzo a far rifornimento di viveri. Non era difficile entrare. Il problema era come uscire. Esattamente l'opposto di ciò che viene in una città assediata!
Sul ponte di Caneva c'era un presidio tedesco che con un posto di blocco doveva impedire che dalla città assediata uscissero i viveri degli assedianti. Le donne spiegavano che era cibo per le loro famiglie per i loro figli. Ma quelli le accusavano di rifornire il partigiani e con un'accusa del genere si stava poco a finire a Udine in via Spalato e da lì a in campo di concentramento a Dachau. Le donne erano quindi costretta a guadare il But a valle di Caneva per poi risalire e prendere la strada per Cazzaso. Ma non era finita perché attraversato il But si era in zona a controllo partigiano, nella cosiddetta Carnia Libera. Tanto libera poi non era se c’era il rischio concreto d’essere fermate dai partigiani ed accusate da questi di essere state dai tedeschi a fare la spia. E con questa accusa il meno che ti poteva capitare è ti requisissero “per la causa” tutto ciò che c’era nella gerla. Alcune di loro che si erano dimostrate recidive erano state condannate anche al taglio dei capelli “Imparassero finalmente che non si poteva continuare a fare le spie con la scusa di dar da mangiare ai figli!”
Così fecero anche quel giorno le undici più anziane. Maria, la più giovane, era scesa solo a prendere del pane, e non aveva il coraggio di attraversare la corrente del But. Si era accompagnata a Nena che aveva mal di cuore e non poteva fare sforzi. Loro due avevano quindi deciso di rischiare l'attraversamento del ponte di Caneva. Con le gerle piene di pane sarebbe stato un suicidio, e si erano fermate all’osteria La Stazionate, alla stazione della vecchia ferrovia per Paluzza, a pensare al da farsi. In quella stava passando un vecchio contadino di Caneva tirando una barella carica di attrezzi.
“ Buonuomo,” gli chiesero “se metti i nostri sacchi di pane sotto le tue cose i tedeschi non si accorgeranno. Noi ti aspettiamo dall'altra parte del ponte”. Il contadino che le conosceva, ed era veramente un buon uomo, e si prestò a correre per loro il rischio per far uscire il pane dalla città assediata. Le due donne attraversavano il ponte con la gerla vuota e presero ad aspettare dall'altra parte davanti all'osteria Da Rinoldi.
Ma non era una giornata come le altre! I due tedeschi erano già arrivati a denunciare al loro Comando l'aggressione che avevano subito da parte dei partigiani di Cazzaso. Ma, ciò che sapevano solo i partigiani era che l’aggressione agli uomini del latte era solo il primo atto di un piano ben studiato ed organizzato per quel giorno, per dare ai tedeschi una bella lezione, una vera dimostrazione di quale fosse la forza ed il coraggio del battaglione partigiano attestato tra Casanova e Cazzaso.
Dopo una lunga e preoccupata attesa Maria e la sua amica videro arrivare il contadino con la barella. Ma non aveva con sé il pane…
“Non me la sono sentita di rischiare. Ho avuto la sensazione che stesse succedendo qualcosa. E infatti i controlli sono stati intensificati. Mi hanno fatto buttare a terra ciò che avevo nella barella per controllare ogni cosa. Se avessi avuto il vostro pane ora sarei già in arresto”.
Al buonuomo veniva da piangere e non si poteva fargli una colpa. Maria non riuscì invece a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere. Pianse disperata tra le braccia di Nena. “Tutta la fatica, tutta la paura e la tensione nervosa di quelle ore, per nulla…e i soldi persi…
“Ci poteva andar peggio!” la consolava la Nena. “A quest’ora magari potevamo già essere in prigione…”
Il buonuomo aveva detto d’aver lasciato il pane alla padrona della Stazionate. Avrebbero potuto attraversare di nuovo il ponte per andare a riprenderselo.
“Ma non ve lo consiglio!” aggiunse, “me la sento che oggi sta succedendo qualcosa!”
Le sue ultime parole furono accompagnate da un grande scoppio al di là del ponte. Salirono sull’argine per vedere meglio. Non c’erano dubbi stava andando a fuoco la Stazionate con tutto il loro pane…e Maria riprese a singhiozzare, vedendo che il destino quel giorno le si accaniva contro. Non restava altro da fare che riprendere la strada per risalire al paese, con la gerla vuota per raccontare ciò che era accaduto….
Proprio in quello furono raggiunte dalle altre undici che salivano da Caneva dopo aver guadato il fiume. Non ci voleva molto a capire che l'incendio, pur non sapendo come era scoppiato, non era un buon presagio per il resto della giornata, anche loro si stavano affrettando per rientrare. Maria però aveva deciso di adattarsi al passo di Nena e già tra le siepi di Caneva il gruppo delle undici le avevano distanziate. All’attacco della salita del Clapùs c'èra un posto di blocco partigiano.
“Non si può passare. E’ pericoloso. Stiamo per iniziare un'azione contro il presidio tedesco”
Insistettero. “Va bene. Fate in fretta e a vostro rischio e pericolo”. Arrivarono di corsa alla svolta del Clapus, fuori vista rispetto a Tolmezzo, passando dietro alle spalle dei partigiani che erano si appostati sotto al muretto di contenimento della strada. Incrociarono il vicario don Terenzio che di corsa stava facendo il percorso inverso. Anche lui aveva insistito, ed alla fine era stato fatto passare.
Appena in tempo. Dal piazzale della sovrastante chiesa di S.Maria Oltrebut i partigiani presero a sparare sul posto di blocco tedesco seguiti da quelli appostati dietro il muretto della strada I tedeschi presero a rispondere dal posto di blocco che era stato rinforzato dopo lo scoppio che aveva sviluppato l’incendio alla Stazionate molto vicina al posto di blocco. In un attimo si scatenò un inferno di scoppi con pallottole che fischiavano da tutte le parti. Le due donne avevano incrociato il vicario proprio mentre esplodevano i primi colpi. Avrebbero dovuto decidere di mettersi al riparo sotto l’argine che costituiva una sorta di trincea, ma nella confusione del momento decisero invece di ritirarsi nella Maina che c’è all’inizio della scalinata che porta alla Pieve. La cappelletta è aperta proprio dalla parte dalla quale arrivavano i proiettili dei tedeschi, ed i tre dovettero appiattirsi contro le pareti laterali riparate dal tratto di muro che segna l’entrata ad arco della Maina.
Per fortuna sentivano rimbalzare le pallottole solo sui muri all’esterno, mentre il vicario aveva preso a recitare il rosario.
“Ragazze, pregate perché Gesù ci conceda una buona morte,” diceva loro il prete.
“Ma don Terenzio, noi vogliamo pregare perché ci faccia la grazia di poter tornare al paese,” diceva Maria, alternando il pianto alle parole, e seguendo il prete in qualche tratto di Ave Maria, saltando per scaramanzia la seconda parte con l’invocazione “adesso e nell’ora della nostra morte”.Non c’erano parole più adatte per rappresentare la sua disperazione di giovane ragazza che sentiva il sovrapporsi ed il coincidere delle parole “adesso” e “morte”…
Passarono alcune ore senza potersi muovere, alternando la preghiera al pianto...
Alcune ore perché nopn si trattava di una sparatoria casuale ma di una azione organizzata per intimidire i tedeschi che non avrebbero dovuto più salire a Fusea (come poi fecero) e avrebbero dovuto “assaggiare” tutta la capacità di fuoco del battaglione “Leone Nassivera” che occupava il saliente della Pieve di S.Maria Oltre But e aveva sotto tiro il loro posto di blocco sul ponte di Caneva, e che per mostrare la sua spavalderia aveva issato la bandiera rossa sul campanile della Pieve.
Naturalmente i tedeschi risposero alla grande alla fucileria dei partigiani, con i tiri di mortaio e poi prendendo a cannonate il paese di Fusea che non aveva proprio nessuna colpa. Ma di quei tempi era diventato purtroppo normale che finissero a pagare sempre gli innocenti!..
Per il sentiero del Bant e poi per il guado del But utilizzato dalle donne si precipitò a Tolmezzo da Fusea, certo Arcangelo che nel caso fu tale di nome e di fatto, che con la mediazione del cappellano don Carlo già vicario a Cazzaso, riuscì a spiegare il malinteso, facendo cessare il bombardamento sul paese. Dopo che comunque erano già state incendiate delle case nella borgata di Dortes.
Quando riuscirono a rientrare finalmente al paese assieme al Vicario, furono accolte come delle redivive. Ormai in paese s’era data per certa la loro fine sotto ai bombardamenti…
Per rimettere a posto le cose tra i due paesi, e dovendo i partigiani rafforzare l’assedio a Tolmezzo anche Fusea finì con l’avere i partigiani. Ma per mantenere le differenze se a Cazzaso c’erano i Garibaldini del battaglione “Leone Nassivera” a Fusea si stabilirono in Somp lis Voris i “badogliani”, con una compagnia distaccata del Btg Val But degli osovani di stanza a Priola di Sutrio.

Mirko

Quella di Cazzaso deve essere stata considerata sin dall’inizio una zona interessante per un distaccamento di partigiani. Forse perché da lì passava una linea immaginaria di ritirata e fuga da Casanova fino in Duronc, e poi nelle malghe di Corce e Chiàs. Per questo già a primavera era stata visitata da Mirko il terribile comandante del Battaglione Friuli della Divisione Garibaldi. Era una giornata di sole, tutta la famiglia era nei campi a vangare. Maria era stata lasciata sola in casa a preparare il pranzo. Ad un certo momento sentì risuonare in cortile dei passi pesanti, di scarponi chiodati e le balzò il cuore in gola. Quando sentì battere con forza alla porta mancò poco che svenisse. Era rimasta irrigidita dalla paura senza riuscire a muoversi per andare ad aprire. Non ce n’era bisogno, per fortuna la porta era aperta, altrimenti l’avrebbero sfondata. Entrarono quattro partigiani con il fazzoletto rosso al collo, e indosso fucili e pistole. Il comandante che gli altri chiamavano Mirko, era un omone che le parve enorme, con un cappellaccio in testa ed un fucile mitragliatore di traverso sul petto. Per tranquillizzarla le dissero di non aver paura, che nessuno voleva farle del male.
“Abbiamo fame,” le dissero con un tono che non ammetteva discussione. “Dacci qualcosa da mangiare.
“Non abbiamo pane,” disse lei con un fil di voce. Come era vero. “C’è solo della polenta fredda da ieri sera,” aggiunse poi cercando di farsi coraggio.
“Va bene per la polenta, con una bella frittata,” disse il capo in un italiano con accento straniero. Non poteva dire che non aveva uova perché avevano di certo già visto le galline nel cortile di casa, ma volendo trovare una scusa perché se ne andassero da qualche altra parte. “Mi manca la padella,” disse, mentendo. Una bugia del genere le sarebbe potuta costare molto cara. Per sua fortuna s’erano già seduti stanchi e non s’alzarono per andare a controllare le padelle che aveva nel retrocucina.
“Arrangiati! Fai come vuoi. Fatti prestare una padella ma sbrigati a fare la frittata” urlò il capo. Morta di paura corse dalla vicina di casa. Balbettando, spiegò in qualche modo la situazione e tornò sempre di corsa con una grande padella. La mise sulla piastra del focolare con pezzettino di burro appena visibile come condimento, e prese a sbattere le uova. Il comandante che, continuando a parlare con i suoi, la stava seguendo mentre si muoveva per la casa, quando la vide misurare il condimento a quel modo, scoppiò in una fragorosa risata:
“Metti questo!” le disse traendo da una borsa che aveva a tracolla una palla di burro che avevano appena requisito nella vicina latteria, grande come una delle più grandi patate che si possono raccogliere nel campo.
“Ma è troppo,” si permise lei di obiettare con un filo di voce.
“Per i miei gusti, parli troppo,” disse lui, alzando la voce. “Ringrazia Dio che mi hai trovato in giornata buona. Fai come ti dico e non aprire più la bocca”
Già per la paura le mancava la saliva e le si seccava la gola, a quelle parole, le parse veramente d’aver inghiottito la lingua e d’essere diventata muta. Mise a sciogliere tutto quel burro. Ma quando vi versò sopra le uova sbattute, il condimento debordò dalla padella spandendosi sulla piastra riempiendo di fumo e di odore di burro cotto la casa.
S’attendeva d’essere sgridata e invece presero la cosa, con una risata. Mostrarono anche di gradire la frittata che avevano trasformato in una sorta di zuppa con tanta polenta sminuzzata ad assorbire tutto quel condimento. Finito di mangiare la salutarono allegri, per tornare nei loro rifugi sopra il paese di Vinaio. Il capo lo fece sghignazzando.: “Per la prossima volta, quando torneremo, dì a tua madre di procurare una padella più grande” le disse a mò di saluto.
Quando se ne furono finalmente andati Maria raggiunse di corsa i suoi nel campo.
“Cosa c’è?” le chiese sua madre vedendola arrivare stravolta, con il viso cadaverico.
Svenne, senza trovare le forza di rispondere… E per diversi giorni la dovettero curare per una inarrestabile dissenteria…

La morte di Teresa.

Di Mirko a Cazzaso si sentì parlare di nuovo il primo luglio. Come si legge nel Municipio di Tolmezzo “nella notte tra il 30 e il 1° corrente, è stata da ignoti trasportata nel cimitero di Fusea una salma di giovane donna che si dice uccisa in frazione Buttea di Lauco. Non è stata riconosciuta”. Si diffuse la voce che fosse stato Mirko ad ucciderla, perché a lui ormai nella zona veniva attribuito tutto ciò che di efferato veniva fatto dai partigiani. Per le chiacchiere di paese si trattava di una amante che aveva punito.
Alcuni giorni dopo scese in paese una donna di Buttea. Anche da lassù si scendeva a Tolmezzo a cercare qualcosa da mangiare, e raccontò la vicenda di Teresa Santellani una ragazzina nata a Invillino nel 28 e quindi di soli sedici anni. Come s’era poi saputo, accusata d’essere una spia era stata presa dai partigiani in casa e fatta salire scalza fino a Luaco. Qui la padrona dell’osteria le aveva regalato i scarpez della figlia. Avevano proseguito fino al comando partigiano di Salvins sopra Vinaio, dove era stata interrogata e condannata. Aveva proseguito poi con i suoi carnefici per Buttea. E qui la donna raccontava d’averla vista arrivare nella notte.
Ero ancora sveglia ed ho sentito bussare forte alla porta. Sono andata ad aprire, piena di paura pensando a quei delinquenti dei partigiani. S’è invece presentata lei una bella ragazza e mi ha chiesto se le davo carta e penna per scrivere. Tutto mi sarei aspettato eccetto che una richiesta del genere. Con lei sono entrati i due accompagnatori, due figuri da patibolo. Le ho dato da scrivere e mentre lo faceva ho preparato un caffè per tutti e tre. Ha consegnato lo scritto a uno dei due chiedendo venisse consegnato alla madre.
“Dove la state portando?” ho chiesto loro.
“A far troppe domande si corrono solo inutili rischi,” mi ha risposto brusco uno dei due.
Credevo purtroppo d’aver capito cosa stessero per fare, continuava la donna nel suo racconto, e mentre stavano uscendo ho ancora insistito dicendo: “Non avete paura della giustizia divina? Cosa può aver fatto di così grave questa povera ragazza?”. Mi hanno buttata a terra con uno spintone e se ne sono andati. Lei davanti e loro dietro, come Cristo tra i suoi carnefici. Alla mattina un gruppo di donne stavamo scendendo per andare a Tolmezzo quando sul ponte del Chiantone abbiamo visto una macchia di sangue. Istintivamente mi è venuto di guardare nella forra, sotto al ponte, ed ho visto la ragazza della sera prima, sopra un albero che si sporge di traverso. Come un uccello che resta attaccato con il vischio alla pania. Siamo corse su allora a chiamare gli uomini che si sono calati con le corde e hanno recuperato il corpo. Era stata uccisa con un colpo solo alla nuca. Evidentemente l’avevano uccisa sul ponte e poi gettata di sotto. Ma per la fretta non si erano fermati a guardare, sicuri che fosse finita nel profondo delle acque del Chiantone. Gli uomini l’hanno poi trasportata nel vostro cimitero, perché qualcuno provvedesse alla sepoltura.
Le ragazze d’allora ricordano d’essere state a dirle un requie, nella cella mortuaria. Era una bella ragazza, con dei capelli lunghissimi. Ma non c’è ricordo del funerale. E probabile che le esequie sia state fatte in modo molto riservato per non urtare i partigiani…
Poi Mirko si trasferì a Pani di Raveo e la zona di Vinaio fu occupata dagli osovani di Barba Livio (Romano Zoffo) “Bravo ma con le spie troppo severo” come dice il Parroco di Vinaio don Francesco Zaccomer anch’egli partigiano con il nome di Franzak e di cui si dice dicesse messa la con pistola sull’altare.

La strage di malga Cordin.

Con l’orrore della guerra il paese dovette fare un altra volta i conti il 20 luglio. Come d’uso nel mese di giugno le bestie venivano trasferite in malga. quell’anno D’Orlando Liduino di Cazzaso e D’Orlando Cristoforo di Fusea s’era accordati per monticare assieme la malga di Cordin grande in Comune di Paularo, al confine con l’Austria. Avevano preso come pastori esperti il figlio di Cristoforo, Primo, ed il genero Attilio Mongiat, e come ragazzi il figlio di Liduino, Agostino ed un altro ragazzo di Cazzaso Stefanutti Albino.
Non era un anno come gli altri. Sulle malghe c’erano i partigiani, c’erano i tedeschi che facevano rappresaglie. C’era insomma pericolo. Maria ricorda d’aver ascoltato in piazza le parole preoccupate di Mongiat. La moglie di Liduino aveva insistito sconsigliandolo a portarsi in malga un figlio così giovane con i tempi che correvano. Ma non si poteva fare a meno dell’alpeggio. Si sarebbero dovute eliminare delle bestie per mancanza di coraggio. Insomma si doveva partire, e infatti partirono, Agostino accompagnato dalla sorella Alie con la gerla a portare i vestiti e il necessario per passare tre mesi in malga. Nelle sue parole ancora vivo il ricordo di quel viaggio con pernottamento a Paularo da certo Blanzan.
Per eseguire una feroce rappresaglia arrivò il 18 luglio in malga un gruppo di soldati delle SS vestiti da partigiani garibaldini. Erano già passati per Lanza, dove avevano ucciso due pastori. Incontrarono all’esterno della malga i due ragazzi che giocavano e li uccisero a freddo. Agostino con la fionda in mano. Attilio e Primo i due più grandi, per sfuggire si rinchiusero nel “celar”, la stanza del formaggio, ma i tedeschi sfondarono la porta e uccisero anche loro. Non c’era Liduino che era sceso per affari a Tolmezzo, lasciando, secondo la testimonianza della figlia, la gestione della malga al socio Cristoforo. Ma non c’era neppure il socio che secondo la testimonianza della figlia, anche lui era tornato a casa per prendere alcune cose. Comunque anche se fossero stati presenti non avrebbero potuto far altro che allungare la lista dei morti di Cordin.
Intanto a Cazzaso era arrivata in qualche modo la notizia della strage di Lanza. Le due malghe sono confinanti, e quindi la notizia viene presa con grande apprensione e preoccupazione. Liduino con la moglie di Cristoforo e una sua sorella, il 19 partono a piedi per Cordin. Dormono la sera a Paularo ed all’alba del giorno dopo, sono in malga disperate a constatare ciò che è successo. Liduino non ha neppure il coraggio di arrivare in malga. Sente le grida di disperazione delle due donne. Immagina ciò che è successo. Si sente forse in colpa ricordando quanto aveva insistito la moglie perché non mandasse il figlio in malga.
Per le due donne non c’era altro da fare che scendere ad avvertire di quanto era successo. Si caricano quindi la gerla e ritornano a Paularo e poi a Fusea. Liduino secondo la testimonianza di Alba “colto dalla paura era sparito”. Colto dal rimorso, più probabilmente, o impegnato a capire cosa fosse veramente successo, perché erano sparite anche tutte le bestie, tutte le mucche e tutte le capre. Un particolare che si aggiunge a tanti altri per aiutare gli storici a ricostruire quali siano state le vere motivazioni che hanno portato alla strage di Lanza e Cordin che è poi proseguita tre giorni dopo con quella ancor più pesante di Malga Pramosio, continuata poi in forme anche più tragiche a danno degli abitanti di Paluzza e Sutrio.
Per quel che riguarda la storia di Cazzaso. si può immaginare come la morte di Agostino e di Albino sia stata accolta dalle due famiglie e dall’interno paese. Solo il 22 è stata data la notizia alla madre che era incinta al nono mese e che per l’emozione ha partorito immediatamente un nuovo maschio al quale evidentemente è stato dato il nome di Agostino. Lo stesso giorno alcuni volontari hanno recuperate le salme e su delle scale di legno le hanno portate a Paularo. Si è deciso di inumarle provvisoriamente nel cimitero di quel paese, perché erano in corso rappresaglie in tutta la valle del But. Come racconta Alba nella testimonianza raccolta da Conedera “Il 24 luglio si sono celebrati i funerali di tutte le vittime. All’uscita della chiesa qualcuno ha gridato che stavano arrivando i tedeschi. C’è stato quindi un fuggi fuggi generale abbandonando le bare sul posto. Fortunatamente era un falso allarme. Nella primavera del ’46 le salme di Agostino ed Albino sono state riportate a Cazzaso, e inumate nel cimitero del paese con un funerale che ha visto la partecipazione di una folla enorme.


La battaglia dell’8 ottobre.

L’8 di ottobre è’ domenica, la festa dell’ottava del Rosario.In cielo ci sono squarci di azzurro ma scorrono nubi basse sui fianchi delle montagne.E’ appena suonata l’Ave Maria del mattino, quando si cominciano a sentire gli echi della battaglia scoppiata in basso. I tedeschi stanno attraversando il But e puntano su Casanova anche con i carroarmati. L’avanzata è protetta da uno sbarramento di fuoco che travolge le resistenze dei partigiani alla Pieve di S.Maria comandati da Furore. Alle 9 i partigiani stanno già ripiegando su Terzo, per poi ritirarsi ancora su Zuglio. A Cazzaso ci si dà da fare per ripulire la scuola che era stata occupata dai partigiani. Si vuole eliminare ogni traccia di presenza partigiana per evitare le rappresaglie dei tedeschi. Raccogliendo il fieno che avevano utilizzato per giaciglio Maria si ritrova tra le mani una bomba a mano inesplosa e senza sicura. Per la festa del perdon era tradizione che salisse della gente da Terzo, ora sono invece salite spaventate le donne che cercano di sottrarsi ai rastrellamenti ed alla furia dei tedeschi e dei cosacchi.
A mezzogiorno infuria la battaglia dalle parte opposta tra Navarlons e Illegio, intanto sulla strada per Fusea salgono gli squadroni cosacchi a cavallo, attraverseranno Cazzaso e Sezza per poi attestarsi a Fielis ed alla Pieve di S.Pietro.
Al pomeriggio inizia a piovere a dirotto, per Cazzaso è finita l’occupazione di partigiani e inizia quella dei cosacchi.




Con i Cosacchi.

I primi erano passati lo stesso giorno. Erano gli squadroni della cavalleria che per Marcilie andavano ad occupare Fielis e S.Pietro per costringere i partigiani a ritirarsi. Ma poi arrivarono quelli stanziali. La Carnia era stata assegnata da Hitler ai Cosacchi come loro patria provvisoria con il nome di Kosakenland questi si sistemarono come fosse casa loro, quasi in ogni paese. Quasi, perché, anche i Cosacchi come a voler marcare la differenza tra i due paesi, preferirono sistemarsi a Fusea. Ma consigliati evidentemente da quei furbi di fuseani, mandavano i loro cavalli a pascolare nella campagna di Cazzaso. Pazienza durante l’inverno. Ma a primavera quando si doveva cominciare a preparare i campi, i cavalli che scorazzavano liberamente diventarono un vero problema. Come era un grosso problema quello della fame dei Cosacchi. Non era minore di quella dei cazzaini, dopo che i nuovi arrivati avevano ripulito anche quello che era rimasto dalle razzie dei partigiani. Ma i paesani sapevano che si deve rinunciare a qualche pezzo di patata a primavera, da riservare come semente, se si vuole raccogliere qualcosa in autunno. I Cosacchi invece, vuoi perché la fame era troppa, vuoi perché se la sentivano che per loro non ci sarebbe stato un autunno in Carnia, andavano in cerca anche delle patate appena deposte a far da semente. Erano i corvi ad avere il vizio i posarsi sui campi a beccare i chicchi di granoturco interrati come semente. E con gli uccelli si sapeva che bastava uno spaventapasseri, ma a come spaventare i cosacchi nessuno s’era ancora inventata una soluzione. Non restava che privarsi di altri pezzi di patate per ripiantare sperando che non s’accorgessero che il campo ove avevano già raccolto era stato ripiantato.
I cosacchi…ce n’era di ogni tipo, c’erano quelli così sporchi che a passargli vicino ti veniva da vomitare c’erano quelli raffinati. Nella casa di Sara in Cjaveç c’era un pianoforte, e un cosacco vi passava delle ore a suonare…e suonava da Dio.
Comunque per difendersi dalle loro angherie cazzaini e fuseani, appena li vedono insediarsi in paese, chiedono al Commissario Prefettizio di Tolmezzo Angelo Schiavi di poter formare un comitato di difesa e già il 13 ottobre il Commissario scrive:
Vi confermo che autorizzo i sottonotati cittadini a formare il Comitato locale per la protezione della cittadinanza e del patrimonio ed impianti di ragione pubblica nelle contingenze attuali e fino al ritorno della normalità. I sottoelencati sono invitati a riferire tramite il capofrazione di Fusea Mazzolini Giovanni quanto risulti di anormale e che interessi la collettività e patrimoni pubblici e la protezione dei singoli:
Per Fusea: Mazzolini Giovanni, Piutti Giovanni, D’Orlando Arcangelo, Mazzolini Giacomo, Valle Paolo, Peresson Giovanni.
Per Cazzaso: D’Orlando Antonio, D’Orlando Amadio, Gressani Ferruccio, Cimenti Onorio. Nutro fiducia che la concorde opera dei suddetti valga ad alleviare almeno in parte le sofferenze che i momenti attuali tormentano la nostra Carnia.
Molto solerti alcuni giorni dopo chiedono al Comune se saranno rimborsati per i viveri e i foraggi che forniscono ai Cosacchi. Il Commissario il 21 ottobre gira la richiesta alla Prefettura, ma la domanda si deve essere poi persa tra le scartoffie.
Per fortuna ai primi di maggio del ’45 anche i Cosacchi se n’andarono. Era finalmente finita la guerra.

Dopo la liberazione.

E’ finita la guerra ma non finita la fame. Il padre di Agostino si mette nel commercio o per meglio dire nel baratto. Parte da Cazzaso con un carro carico di legna e torna con granoturco ed altre cose da mangiare. Ma un giorno in uno di questi viaggi, s’accascia in una osteria a S.Tommaso di Majano colpito da un infarto improvviso. E’ il 22 luglio del 45. Il gioco strano del destino! E’ passato un anno esatto dal giorno nel quale sua moglie ha avuto la notizia della morte di Agostino ed ha messo al mondo un altro Agostino.
In casa di Maria non ci sono carri e cavalli ma fame sì. Lei è la più grande di cinque fratelli e sua madre è di nuovo incinta. Anche lei come altre, con l’amica Alma viene mandata addirittura fino a Muzzana a procurare granoturco per la famiglia.
Vivo ancora nella memoria, dopo sessanta anni, il ricordo di quel viaggio. La fortuna d’un autostop di militari inglesi fino a Muzzana. Da qui a piedi alla frazione nella quale dovevano rifornirsi. L’arrivo alla sera nella casa dei contadini, la cena assieme a loro, e poi a dormire nella stalla. Ma proprio quella sera il toro riesce a liberarsi della catena, e si può immaginare la notte di due ragazze sole in una stalla nella quale gira libero un toro! Finalmente viene giorno, e si può partire. Cariche le gerla, ed anche con dei sacchi da portare a mano, sempre contando sulla generosità di qualche passaggio. E infatti un carradore le porta fino a Mortegliano. Qui per la grande fame sono costrette a chiedere l’elemosina di qualcosa da mangiare. Maria non ha il coraggio, vi provvede per entrambe l’amica. E poi di nuovo sul cassone d’un camion fino a Udine, e su un altro fino a stazione per la Carnia. Qui la generosità d’un paesano impietosito mette a loro disposizione una barella e si impegna a venire a riprendersela a Casanova, dove la lasceranno per riprendere la gerla sulla schiena e salire finalmente al paese.
E’ finita la guerra, ma non c’è lavoro…e per i più, (soprattutto quelli che non possono presentare il credito del servizio come partigiani!) non resta che la via dell’emigrazione, per molti addirittura come clandestini, verso la Svizzera o la Francia.

sabato 30 luglio 2011

La Resistenza in Carnia.

Di solito mi occupo di leggende, perché sono finito ad interessarmi di storia, e per di più di un tema ancora scottante come quello della Resistenza in Carnia? Perché ho un debito verso questa storia! Ne sono stato anch’io, a mio modo, protagonista. Nel ’44 avevo un anno. Mia madre ha attraversato il Rest per recuperare qualcosa da mangiare in pianura per se, per potermi allattare, e per me che mi stavo forzatamente svezzando. Quando è rientrata, i partigiani del mio paese (non i tedeschi o i cosacchi!) le hanno preso la gerla con le cose che avrebbero dovuto servire a me. E per punizione, perché per amore di suo figlio aveva infranto gli ordini per i quali sarebbe stato necessario “affamare la Carnia perché si ribellasse”, i partigiani (non i tedeschi!) le hanno tagliato i capelli…
Mio padre invece, con qualche breve interruzione, aveva passato dieci anni lontano da casa, impegnato a seguire i sogni di gloria di Mussolini. Si fregiava d’una croce di guerra per la conquista di Addis Abeba e di una medaglia di bronzo per essere finito congelato sul Golico in Albania. Fu la sua fortuna! Non la medaglia ma il congelamento! Non fu infatti considerato abile per poter partecipare alla "gloriosa" spedizione della Jiulia in Russia. Era quindi rientrato in paese, e fu così reclutato a far parte, obbligatoriamente, della Guardia Territoriale. Mentre i “patrioti” in una casa del paese se la spassavano a gozzovigliare con tutto ciò che avevano requisito, egli, affamato, dopo aver lavorato tutto il giorno, doveva fare la guardia per evitare che il bivacco dei partigiani fosse disturbato da qualche improvvisata di quei bastardi di tedeschi e di quei disgraziati di cosacchi.
Se la storia mia e dei miei fosse un caso isolato, non varrebbe la pena di parlarne, potrebbe restare un mio fatto privato. Ma è stata la storia non scritta di sessantamila carnici nella Resistenza, mentre la storia l’hanno scritta i duemila che hanno approfittato della Resistenza, chi per farsi un nome, chi per farsi delle vendette, chi semplicemente per imboscarsi e poi trarne vantaggio alla fine…
Ora, siccome quei due poveri cristi dei miei genitori si sono anche sacrificati per mettermi nelle condizioni di saper scrivere, e siccome i miei non sono altro che il campione di tutti quei genitori che hanno subito la Resistenza in Carnia, e che alla fine della guerra hanno dovuto prendere la valigia per la Svizzera o per la Francia, mentre ì “resitenti” trovano la possibilità di venir raccomandati per un posto di lavoro in loco, mi sento il dovere di dar loro voce, per raccontare la loro storia della Resistenza, per certi versi molto diversa purtroppo da quella che è diventata la storia ufficiale….(continua)

domenica 29 maggio 2011

L'orca Carnia.

Nella notte dei tempi, ma nel più profondo della notte, vale a dire qualche milione d’anni fa, ove oggi svettano le Alpi Carniche, c’era l’Oceano. Nel profondo degli abissi del mare giaceva un terribile mostro: una orca di nome Carnia. Terribile si fa per dire, avendo mente alle sue enormi dimensioni. Come fosse di carattere non si poteva sapere dal momento che dormiva. E dormì sonni profondi nel profondo dell’oceano per migliaia d’anni. Sulla sua schiena andavano a morire di anno in anno tanti molluschi che un po’ alla volta le formarono un guscio come quello delle tartarughe, una enorme corazza di roccia.

Un giorno però, anche se non è dato a sapere come mai, Carnia l’orca si svegliò. Lentamente. Come ci si sveglia dopo millenni. Prese a muoversi pigramente cercando di scrollarsi da dosso tutta quell’acqua che le stava sopra. Si sollevò lentamente, e con un ultima scrollata spinse l’acqua nell’Adriatico. A seguito di tutti quei movimenti anche il guscio, prese a corrugarsi proprio come quello delle tartarughe, e in qualche punto anche a spezzarsi.

La luna che anche a quei tempi passava ogni notte di là, restò sgradevolmente sorpresa. “Era meglio la distesa del mare, piuttosto che quell’enorme panettone, venuto a galla un po’ alla volta. Ma se si dovesse prestare orecchio anche ai commenti della luna, si finirebbe per non apprezzare neppure il sole…Il sole comunque che anche a quei tempi splendeva sui buoni e sui cattivi, sui belli e sui brutti, prese a riscaldare anche l’orca Carnia. Ma era un sole ancora in fasce, come un bambino appena nato. Non aveva nessuna forza, dava luce, ma non trasmetteva nessun calore.…

Così la pioggia che cadeva sul guscio dell’orca prese a gelare. Non trovando altro di meglio da fare in tutto quel freddo, l’orca si riaddormentò. O meglio andò in letargo, come anche ora fanno gli orsi ed altri animali per difendersi dal freddo dell’inverno. Ma il sonno dell’orca durò di nuovo altri millenni, e sul dorso si formò nel tempo una coltre di ghiaccio, d’un spessore quasi pari a quello della crosta che avevano formato i molluschi in fondo al mare. Secondo i geologi si sarebbe poi risvegliata un paio di volte, agitandosi per alcuni millenni. Al calore del suo corpo non più in letargo, il ghiaccio ha così preso a sciogliersi corrodendo e scavando il guscio del grande animale.

La superficie che prima era uniforme è diventata nel tempo sempre più profondamente corrugata. Al secondo risveglio si distinguevano bene ormai due grandi scanalature che partendo dai bordi venivano a congiungersi più in basso, disegnando in mezzo un altopiano centrale. Ma un giorno ci fu il risveglio definitivo del grande animale. Il sangue dell’orca prese a riscaldarsi sempre più, e scaldandosi a sciogliere con sempre maggiore rapidità la crosta di ghiaccio. E l’acqua che usciva dal ghiaccio a scavare…Per giunta l’orca soffriva di terribili mali di pancia che la costringevano ad agitarsi lasciando uscire dei terrificanti brontolii. A quei movimenti scomposti il guscio si infrangeva, e nelle crepe entrava l’acqua a scavare ancora più in profondità. Si aveva l’impressione che l’Orca avesse come figliato due fiumane, che correvano giù nelle due scanalature, l’una quella che nel tempo prenderà il nome di Bute l’altra quella che si chiamerà Tilia.

Alla fine scioltosi tutto il ghiaccio, restarono le due fiumane a scorrere continuando a modellare la corazza dell’orca. Incidendo il fondo delle valli ed andando a ritroso come i gamberi per portare nell’Adriatico anche le piogge che prima erano costretta a scivolare fino al Mar Nero. Non più sole, nel frattempo infatti le due, s’erano fatte un amante ciascuna: l’una il Chiarsò l’altra il Degano. Dalle due coppie era nata una infinità di figli: torrenti, ruscelli, rigagnoli che continuavano a sdrucciolare sul dorso dell’orca Carnia, come il bulino dello scultore che rifinisce il suo capolavoro..

E la luna ripassando di notte in notte su quello che le era parsa un brutto panettone, fu presa ogni giorno di più dal disegno suggestivo che s’andava formando in un rincorrersi di valli più larghe e più strette, più alte e più basse, per lungo e per traverso, separate da un inseguirsi di bianche creste rocciose che s’alternano a vette avvolte nel verde dei boschi e dei prati. Ora nelle notti del plenilunio, pare quasi voglia fermarsi nel cielo per giocare con le ombre degli abeti, per vedere danzare le fate che hanno scelto queste valli per loro dimora.

sabato 21 maggio 2011

Zoncolan

Zoncolan è un nome entrato nel mito della storia del ciclismo. Ma era già nel mito dei Dobes il Piccolo Popolo che ha abitato la Carnia nella notte dei tempi. Zon Colan era infatti uno dei tre capi tribù e da lui viene il nome entrato nella storia del ciclismo.

Nella storia dei Dobes, come in quella dei Maya, c’è la profezia sulla fine del mondo al 21 dicembre 2012 , ma con un originale interpretazione dell’idea della fine del mondo.

La profezia e la storia del Piccolo Popolo sono state scoperte in una pergamena ritrovata casualmente sul monte Arvenis in Carnia da un mio amico, che poi ha provveduto alla traduzione ed alla trascrizione, e mi ha lasciato in eredità il manoscritto.

Io ho ritenuto di dover portare alla luce storia e profezia nel libro “I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia”.

Il libro è acquistabile nelle Librerie Feltrinelli.

E’ possibile leggere l’anticipazione delle prime pagine (e anche acquistare il libro) all’indirizzo:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=590175

venerdì 4 marzo 2011

Il comune domotico

C@S@: il comune domotico.

Il nonno mi raccontava di come alla sera era vivo il paese ai suoi tempi. Non era arrivata ancora l’elettricità. Per le strade i rari passanti si facevano luce con il lampione a petrolio. Le finestre delle case vivevano dei riflessi delle fiamme del focolare, e agitavano le ombre sulla via. C’era luce anche nelle finestrelle di qualche stalla. Al caldo prodotto dagli animali vi si raccoglievano a gruppi le persone, passando il tempo a parlare e raccontare, in “file” come si era soliti dire. Il paese viveva nel primo farsi del buio della notte nel respiro d’un intrecciarsi di luci ed ombre, nell’eco di parole, di battute e di saluti prima di sciogliersi nel silenzio profondo della notte.

Ora il paese è diverso. L’acciottolato delle strade è stato sostituito dall’asfalto, le case sono tutte rimesse a nuovo. Il Comune ha illuminato a giorno tutte le strade. Ma il paese pare un deserto di luce, che illumina case morte. Dalle tapparelle abbassate non filtra un filo di luce. Potresti pensare che siano tutte disabitate, se non si sentissero uscire delle voci. Non sono le voci della gente del paese, ma quelle metalliche e impersonali della televisione. Tutti si sono chiusi in casa, muti tra loro, a subire le immagini e le parole che escono dal televisore.

E si legge che ci sarà un ulteriore sviluppo: quello della domotica. Le tapparelle si chiuderanno da sé all’arrivo dei proprietari e da sé s’accenderà la televisione, mentre il riscaldamento si è acceso a distanza, prima ancora che il proprietario arrivi a casa. La casa sarà sempre più accogliente, addirittura intelligente per capire, anche a distanza i desideri degli abitanti ed adattarsi alle loro esigenze.

La casa di chiuderà sugli abitanti, perfetta…come una cassa da morto, perché l’abitante potrà fare proprio il morto, per subire la tecnologia che muove la casa, la televisione che lo imbonisce. L’uomo nella sua casa intelligente non avrà più nulla da fare, nulla da pensare, appunto come un morto nella sua cassa….

Come uscire? Tornare al passato del racconto di mio nonno? Non avrebbe senso! La soluzione, una vera favola del futuro l’ha trovata il nuovo sindaco del mio paese.

Il paese è stato coperto da una rete virtuale di collegamenti a banda larga per cui da ogni punto ci si può collegare ad internet. Si è messo assieme un cluster di aziende che hanno prodotto un televisore interattivo, e il Comune ha attivato un sistema di finanziamenti agevolati perché tutte le famiglie potessero dotarsi del nuovo strumento. Si tratta d’un grande schermo a 52 pollici LCD che trasforma il salotto di ogni casa in un home teatro. Non è però una televisione ma è il monitor di una postazione internet, che permette di vedere i canali televisivi, ma anche di interagire.

Ogni famiglia è diventata così cella dell’alveare informatico in cui si è trasformato il paese!...

E’ stato così possibile riprendere le serate “in file” di cui parlava il nonno. Ma non occorre andare nelle stalle, si può stare comodamente sprofondati del divano del salotto. Lo schermo dello speciale televisore si può dividere fino a 100 piccoli riquadri ed ogni riquadro è occupato dall’immagine d’una persona che partecipa ad una discussione. Il sistema è programmato per dare per un minuto la parola a chi la chiede, e questo obbliga le persone ad essere stringate e rende animato il dibattito. La persona che parla viene collocata automaticamente al centro dello schermo, e si vedono le altre 99 in ascolto.

Ci sono più gruppi di dibattito, perché ognuno può lanciare un tema, fissando il momento per l’apertura della discussione. Dall’interesse del tema dipende il numero dei partecipanti. Alcuni si sono messi d’accordo di vedere lo stesso film per poi discuterne ed hanno così fatto nascere un cineforum di paese. Altri invece vedono la stessa partita di calcio, dividendo lo schermo in due parti, in una si vede la partita e nell’altra gli spettatori in rete del paese con i relativi commenti. Si è anche diffusa la moda dei viaggi virtuali: a gruppi ci si mette d’accordo di visitare una città o un museo e poi si mettono assieme le immagine che si sono riportare, i commenti che si sono fatti…

Da alcuni giorni, inoltre, si è aperto un dibattito su come riscrivere la storia del paese e tutti si stanno dando da fare a recuperare documenti, mentre si discute sulle varie teorie o leggende che si conoscono sul paese. Partecipano convinti anche gli immigrati che così, sviluppano un processo di identificazione nel paese, che sviluppa anche in loro lo spirito di appartenenza.

Interessante il dibattito che si è sviluppato sul fatto che un tempo il paese si definisse come “vicinia”, e quindi su quanto le riforme del nuovo sindaco tecnologico potessero aiutare a rifare del paese una vera “vicinia” sviluppando di nuovo i rapporti di prossimità tra le famiglie…

Altrettanto interessante il fatto che a questa vita virtuale del paese possono partecipare anche gli emigrati ed infatti ai gruppi di discussione partecipano anche persone dalla Francia e dalla Svizzera e persino dall’Australia. Come ogni casa ha un televisore così ogni persona è stata dotata di un palmare che serve da telecomando ma consente anche di scaricare i programmi. Così le persone possono restare collegate anche quando sono fuori casa ed anche fuori paese.

Ciò che più era cambiato nel Comune era il rapporto dei cittadini con l’amministrazione. Il Sindaco anticipava in internet tutte le delibere sia di Giunta che di Consiglio e sulle delibere si apriva un dibattito preventivo, una sorta di sondaggio d’opinioni che poi veniva tenuto presente nelle sedute convocate per deliberare formalmente. Il Sindaco in primis, ma anche tutti gli Assessori avevano aperto un forum di discussione con i cittadini. Era poi possibile richiedere ed avere a casa ogni tipo di documento comunale, e anche documenti di altri organismi che il Comune si faceva carico di ottenere per conto dei suoi cittadini.

Anche la scuola del paese è stata dotata d’un televisore interattivo che sostituisce la classica lavagna, e gli scolari fanno teledidattica usando internet come fonte di informazioni e collegandosi con altre scuole nel mondo che usano sistemi analoghi. Al pomeriggio poi il sistema viene utilizzato per costituire dei gruppi di lavoro per il doposcuola, consentendo ad una sola maestra di seguire più gruppi di scolari che formano, sia sul monitor di casa che su quello della scuola, un aula virtuale. Con questo sistema anche gli scolari che sono ammalati possono continuare a seguire le lezioni da casa. Mentre i genitori possono entrare nelle pagine dei loro figli a scuola per sapere se sono presenti, ma anche per conoscere in tempo reali i voti. Tutti gli studenti poi, in quanto cittadini sono dotati di un palmare con il quale si può partecipare alle lezioni virtuali e scaricare i compiti, e nelle giornate di primavera possono partecipare al doposcuola standosene all’ombra di qualche albero in campagna e d’inverno passeggiando sulla neve.

Nel portale del paese sono state aperte delle pagine per ogni famiglia, pagine fatte in modo che si possano riempire con estrema facilità. A tutti sono state dati degli indirizzi mail nome.cognome@ilpaese.it e il fatto ha contribuito a sviluppare il processo di identificazione. Comunque sono stati anche organizzati degli incontri nei quali i nipoti hanno spiegato ai nonni come riempire le pagine, come chattare, come telefonare con Skype vedendo l’interlocutore, e tutte le famiglie si sono fatte un loro piccolo sito con la storia della loro famiglia.

Il negozio di alimentari, la macelleria, il fornaio si sono fatti un sito un po’ più complesso con la possibilità di ordinare on line i loro prodotti. Lo stesso hanno fatto anche alcuni produttori locali soprattutto di prodotti agroalimentari. E’ quindi ora possibile per ogni famiglia ordinare da casa la spesa fatta in paese e per i produttori locali si è attivata la “filiera corta” vantaggiosa sia per i produttori che per i consumatori. C’era il problema di chi la dovesse portare la spesa ordinata tramite web…Il Sindaco è riuscito ad ottenere che le Poste appaltassero ad una cooperativa di giovani il servizio di distribuzione della corrispondenza, e questi si sono organizzati per portare oltre che la posta i prodotti ordinati on line, le medicine ordinate alla farmacia…

Ha aderito al sistema anche il medico del paese, il barbiere, la parrucchiera ed altri prestatori di servizi per cui si possono prenotare visite e incontri, evitando di fare le code. Un giovane un po’ scapestrato, appassionato di informatica, aveva proposto di coinvolgere il parroco per prenotare le confessioni, ma questi si era schermito e l’idea era caduta, come ne erano cadute tante altre…“Le confessioni sono come la morte”, aveva sostenuto il vecchio parroco, “non si possono prenotare!” E di fronte ad una affermazione così categorica ha dovuto arrendersi anche l’entusiasmo del Sindaco per l’innovazione tecnologica.

Il giovane era invece riuscito a sviluppare un sistema per cui i vecchi potevano riunirsi virtualmente a giocare a carte, ed anche alla morra, evitando di dover uscire con il brutto tempo. S’era poi messo in società con altri giovani del paese ed avevano attivata una software house che in telelavoro aveva clienti in tutta Europa ed anche negli USA.

Un tempo i Sindaci si distinguevano nel proclamare il loro Comune “denuclearizzato” il nostro volle distinguersi proclamando il primo Comune “demonetizzato” del mondo. Su sua iniziativa, la cooperativa dei postini ha definito una convenzione con le poste per la quale gli addetti sono stati dotati d’uno strumento che ricarica le carte di credito. Tutti gli abitanti hanno quindi avuto in dotazione una carta che viene ricaricata a domicilio e che consente di fare ogni tipo di spesa in paese. Anche il bicchiere di vino al bar viene pagato con la carta e nel paese è scomparso quindi l’uso della moneta. Lo strumento in dotazione ai postini fa anche le funzioni di bancomat, è quindi possibile per gli abitanti rifornirsi a domicilio dei soldi che dovranno spendere fuori paese.

Anche il parroco che aveva avuto dei problemi per la prenotazione delle confessioni si è adeguato al sistema ed ha dotato il sacrestano di un lettore di card. Così durante la Messa non gira più con la borsa delle offerte ma con un strumento nel quale i parrocchiani inseriscono la card e digitano l’offerta voluta.

Il computer che comanda il monitor del salotto è anche un server che riceve impulsi dall’interno della casa e li trasmette all’esterno. Così si è attivata una centrale di assistenza ai risparmi che tiene sotto controllo i consumi di luce e gas di ogni abitazione, avvertendo gli interessati in caso di anomali. Più importante è il risultato che si ottiene con il sistema sotto il profilo dell’assistenza domiciliare. Tutti quelli che hanno dei problemi vengono dotati di sensori che tengono monitorati i valori che è opportuno tenere sotto controllo, e presso la Casa di Riposo si è allestito un centro in grado di intervenire ogniqualvolta il sistema segnala delle variazioni fuori norma. Così, soprattutto per gli anziani, si è così riusciti a ridurre le accoglienze in casa di riposo, privilegiando l’assistenza a domicilio
Anche nel mondo delle favole non tutto va a fagiolo… Anche nel nostro paese il Sindaco viene criticato, come in tutti i paesi, soprattutto dall’opposizione. Chi è dall’altra parte infatti, non si sa bene se per una questione di principio o d’intelligenza non riesce ad ammettere che la rivoluzione tecnologica introdotta dal sindaco ha del miracoloso a livello planetario, ha infatti sfatato l’idea che la tecnologia è disumanizzante, e l’ha trasformata invece in un mezzo per fare del suo paese una vera “vicinìa”, un mezzo per avvicinare tra loro le persone, il sistema di relazioni virtuali per favorire lo sviluppo del sistema di relazioni interpersonali.

Con il nuovo sistema però il Sindaco ha ottenuto il vantaggio di poter sentire direttamente l’opinione della gente, e supportato da sondaggi che gli danno dei gradimenti intorno al 90% (compreso il mio!) va avanti imperterrito nella sua riforma per il Comune domotico. Auguri!...

sabato 19 febbraio 2011

Il Piccolo Popolo di Carnia.


Nella notte dei tempi, in un’epoca sospesa tra storia e preistoria, quando sulle Dolomiti s’era affermato il regno dei Fanes, qualcuno sostiene che le Alpi Carniche fossero abitate dal Piccolo Popolo dei Dobes. Per qualcuno sono estinti, per altri vivono ancora, invisibili nelle terre di Carnia, montagna senza confini tra cielo e terra, tra storia e fantasia, tra realtà e poesia…
Vivono ancora nel respiro dei boschi e nel mormorio dell’acqua, nel palpito delle albe e nel brivido dei tramonti. Parlano ancora nella ingenuità del sentire degli ultimo carnici…
La loro leggenda è stata ritrovata in una pergamena che, finalmente, viene portata alla luce nelle pagine del libro: "I Dobes, la saga del Piccolo Popolo di Carnia" che si può vedere ed acquistare all'indirizzo... e nelle Librerie Feltrinelli.



venerdì 4 febbraio 2011

Chiedo scusa per l'ingenuità.



- Ero a fianco del Presidente della Provincia di Udine nel chiedere un rafforzamento dell’impegno a favore della montagna ed in effetti si era raddoppiato il Fondo Montagna e si era istituita la Direzione dell’Area Montagna.
cambiato il vento, perché cambiate le persone, la Direzione è già stata soppressa, il Fondo dimezzato.
- Ero a fianco del Presidente Tondo che condivideva l’idea del rafforzamento dell’Agenzia regionale per la montagna, in alternativa alla Provincia della montagna,
cambiato il vento, senza neppure cambiare le persone, si vuol ora sopprimere l’Agenzia dopo aver svilito il ruolo delle Comunità montane.
E’ prevalso il negazionismo, non esiste un problema montagna, e quindi non è necessario alcun intervento per risolverlo.
C’è da sperare solo nel Padreterno, nell’attesa che la prossima alluvione ricordi a tutta la pianura che esiste ancora (eccome!) il problema montagna.
L’unica amara consolazione, sul piano della passione politica, è la convinzione che l’idea della Provincia dell’Alto Friuli fosse e resti la strada sbagliata per risolverlo:
Non lo si risolve isolandosi, e tantomeno inventando una nuovo istituzione-carrozzone.
La montagna regionale non si identifica ed esaurisce nell’alto Friuli.
Inventando un Alto Friuli che non esiste si sarebbe finiti in una inutile guerra di campanili tra Tarvisio, Gemona e Tolmezzo.
Inventando una istituzione su un territorio senza identità avrebbe perso di valore l’identità della Carnia. Valore di cui (se fin che c’è vita c’è speranza!) in un prossimo futuro, qualcuno potrebbe anche accorgersi, per farne un punto d’appoggio per la leva del rilancio….

mercoledì 26 gennaio 2011

Il funerale dell'Agemont.


Corre voce si stia per celebrare il funerale dell'Agemont. Spero di no! Ad ogni buon conto desidero partecipare alla veglia, (augurandomi il miracolo della resurrezione della defunta) recuperando dal mio archivio una riflessione datata 05.06.07.
Provocazione per provocazione, come mai non si forma nessun Comitato del No alla chiusura?...
Riforma dell’Agemont.
L’Agenzia è nata nell’87. Erano i tempi in cui si pensava alla “leva finanziaria” al “differenziale di sviluppo”. Casualmente è stato inserito l’articolo per il quale avrebbe dovuto realizzare un non meglio precisato CIT.
Fino al 92 l’Agemont fa da Congafi aggiuntivo per la montagna. Casualmente nel 92 si sviluppa un rapporto con il BIC Trieste e quindi l’idea in qualche modo di duplicarlo in montagna. Casualmente il successivo rapporto con il CRF rafforza l’idea e si sviluppa l’Agemont come ora è strutturata.
L’obiettivo che si doveva raggiungere era la massima occupazione per evitare continuasse l’emigrazione, l’Agemont era “agenzia per lo sviluppo economico”.

La massima occupazione è stata raggiunta tant’è che l’ultimo numero della rivista dell’Agemont titola “immigrazione e integrazione”. Una provocazione per sottolineare che il quadro è radicalmente modificato. Ma purtroppo tutti continuano a pensare con gli schemi vecchi di quindici anni…
Malgrado la piena occupazione:
- la montagna continua a perdere abitanti;
- continua lo spopolamento della media alta montagna per un processo di scivolamento a valle.
L’obiettivo nuovo da assumere è quindi: creare le condizioni perché si scelga di restare, o di venire a vivere in montagna. Il tema è culturale, sociale prima che economico.
L’Agenzia deve modificare la natura e diventare agenzia per lo sviluppo economico e sociale, e in quanto tale Ente strumentale della Regione per lo sviluppo della montagna. Non a caso a livello centrale anche l’IMONT è stato trasformato in Ente Italiano Montagna con una mission di supporto allo sviluppo sociale.
Il ruolo di Agemont deve essere quello di Agenzia per lo sviluppo locale, la sua strategia deve essere quella dei progetti “calati dal basso” mi spiego…

Il nuovo progetto montagna era nato con l’idea di una cabina di regia generale e delle cabine a livello di singola comunità. A un certo punto la cabina centrale si è sciolta perché l’Università che vi partecipava si è proposta per definire il progetto. Poteva essere una idea se del progetto si fosse occupata l’Università in tutte le sue articolazioni. Ancora una volta invece si è pensato che Pascolini potesse essere l’Università.
Partecipavo alla cabina come Confcooperative ma ho sempre cercato di sottolineare l’importanza che dalla Cabina nascesse una nuova Agemont con una nuova mission.
Come Ente strumentale della Regione l’Agemont gestisce il Fondo Montagna, definisce una strategia complessiva, articolata in assi di intervento, che sottintendono un nuovo modello di sviluppo. Sulla base dello schema le Comunità o i Comuni aggregati, sviluppano dei Progetti integrati di sviluppo di vallata. L’Agenzia opera come “facilitatore” nella definizione dei Progetti, li finanzia, ne segue la realizzazione sostituendosi in termini di sussidiarietà quando venisse a mancare l’azione delle Comunità. I GAL che sono già agenzie di sviluppo locale a livello di Comunità, diventano bracci operativi dell’Agemont nell’affiancare le Comunità.

Il modello:
-realizzare dei sistemi economici decentrati ed integrati (agricoltura alternativa, turismo, artigianato, indotto da Amaro a tecnologia avanzata, telelavoro…), attorno ai quali possa ricostruirsi un sistema di relazioni che rendano interessante il vivere in montagna;
- sviluppare un peculiare sistemi di servizi pensati per la montagna che facciano della montagna un luogo che offre di più rispetto alla città (teledidattica, telemedicina, teleassistenza, centri culturali e di aggregazione ecc.).
Il modello va articolato in assi di intervento che vengono poi integrati a livello del progetto specifico riguardante la valle o il singolo paese.

La costituzione dell’Agemont come Ente strumentale della Regione consentirebbe all’Agenzia di gestire anche tutti i progetti sul FESR e sui vari Interreg che adesso vengono gestiti dal Servizio autonomo della montagna, unificando la gestione delle risorse gestite a favore della montagna ed evitando, come ora avviene, che si faccia un po’ di tutto, ma niente che abbia quella massa critica necessaria per invertire il trend in montagna.

Ipotesi n. 2
E’ evidente che l’ipotesi esposta è difficilmente percorribile. Presuppone infatti una iniziativa riformatrice della Regione nell’approccio al problema montagna. Iniziativa difficilmente perseguibile per l’impatto negativo che avrebbe sul territorio, per l’accusa di dirigismo e centralismo regionale con cui verrebbe bollata.
La soluzione subordinata è che Agemont si ricavi da sé uno spazio all’interno del sistema montagna, in accordo con le Comunità Montane, restando nell’ambito dello sviluppo economico, sui due versanti del supporto alla imprenditoria esistente e dello sviluppo di nuova imprenditoria.
Se la fase 1 ha visto lo sviluppo del CIT la fase 2 deve prevedere uno sviluppo della ricaduta dell’innovazione su tutto il territorio, cercando di dare risposte a due domande:
come può l’Agemont fertilizzate il tessuto imprenditoriale esistente? Come può sviluppare una azione di inseminazione di una nuova cultura imprenditoriale e di sviluppo di nuove imprese? Se saprà proporsi come la struttura che da risposta a queste due domande, automaticamente avrà un ruolo che gli consentirà di interagire con gli altri soggetti del sistema montagna, senza sovrapposizione e conflitti.

Fertilizzazione.
A fianco del CIT l’Agemont sin dall’inizio ha sviluppato un Centro Servizi Avanzati. Obiettivo era quello del trasferimento al sistema territoriale l’ innovazioni di processo e di prodotto. Avrebbero dovuto crescere delle persone sviluppando un know how nel trasferimento, diventando antenna locale della rete nazionale ed internazione di innovazione. C’erano i programmi e le risorse, è mancato un progetto di Agemont in questa direzione, per cui dopo quindici anni il sistema imprenditoriale della montagna non ha ancora avvertito la presenza di Agemont e tantomeno ne ha sentito i benefici.
Il turn over delle persone è stato tale da non consentire lo sviluppo di una competenza riconosciuta e percepita.
I nuovi programmi “competitività e innovazione” possono costituire una nuova occasione per un nuovo progetto Agemont-Interfaccia sul territorio delle Università, dell’Area di Ricerca e dei Centri di ricerca in generale. Gli Interreg Italia Austria e Italia Slovenia per la posizione di Agemont a ridosso del triplice confine, devono costituire una nuova opportunità soprattutto per le misure che riguardano la messa in rete delle esperienze di innovazione.

Inseminazione.
Se la mancanza di una cultura imprenditoriale come propensione al fare impresa viene considerata uno degli handicap che hanno impedito lo sviluppo della montagna, l’Agemont deve ritrovare la sua mission nel superare questo handicap. Si è invece defilata in questi anni anche dai progetti regionali come “Imprenderò”.
Un progetto per lo sviluppo di nuova imprenditoria e per l’importazione di giovani imprenditori, con un pacchetto articolato di misure agevolative ma anche di supporti di vario tipo partendo da esperienze come quella di technoseed, o comunque da altre esperienze che si stanno facendo in tutto il mondo, dovrebbe concretizzare la mission di Agemont in questo settore.
Lo sportello unico delle imprese potrebbe costituire il punto di collegamento con le Comunità Montane. Uno sportello presente in Agemont e nelle singole Comunità nel quale gli imprenditori e i futuri imprenditori ottengono sia le informazioni che provengono dall’Agemont che quelle di carattere burocratico.
La banca data dei capannoni disponibili dovrebbe costituire il punto di contatto con i Consorzi industriali ai quali dovrebbero essere affidate in gestione le strutture immobiliari.

Fertilizzazione per l’inseminazione.
Si potrebbe così definire l’attività propedeutica per diffondere la cultura imprenditoriale, l’attività si sensibilizzazione e animazione sui giovani possibili imprenditori. Nel progetto a regia Agemont questa attività potrebbe essere affidata ai GAL.
In questa ottica ai GAL potrebbe essere affidato anche lo sviluppo di programmi di cultura imprenditoriale d’intesa con i centri di formazione e con gli Istituti scolastici della montagna.

Progetti Agemont-Comunità Montane.
Un particolare settore di collaborazione tra Agemont e le Comunità Montane suscettibile di interessanti sviluppi potrebbe essere quello della ricerca applicata su problemi particolarmente rilevanti in montagna. E’ un po’ la mission che si era pensata per Cirmont. Sperimentazioni nei settori del riscaldamento e dell’energia, della telemedicina e dell’assistenza, ma anche delle colture alternative, o di nuovi prodotti agroalimentari di nicchia.

A proposito di Cirmont l’uovo di colombo potrebbe essere quello per cui l’Agemont rileva le quote dell’IMONT, fa entrare anche l’Università di Trieste e l’Area Science Park e lo trasforma nel proprio Centro Servizi nell’accezione di cui si è detto sopra.

martedì 11 gennaio 2011

GINO/IGINO Buon Onomastico

Buon onomastico da un Igino a tutti gli Igino ed anche ai Gino del mondo. L’onomastico può essere l’occasione per chiedere l’intercessione del santo protettore di cui si porta il nome. Nel nostro caso, può diventare alla rovescia, l’occasione per rivendicare il ruolo del santo protettore, per riconoscersi in un santo che ha avuto la disgrazia di essere al posto giusto nel momento sbagliato. In questo mi sono sempre sentito in linea con il mio santo protettore… Non so se altri Igino o Gino possano lamentare la stessa cosa…
Diventare papa non è cosa da poco! Oggi chi è papa viene riconosciuto come autorità anche dai non cattolici. Igino purtroppo divenne papa troppo presto. Era il nono dopo S.Pietro, e i papi non li portavano ancora in giro per le basiliche con la sedia gestatoria, anzi il nostro protettore dovette subire “gloriosamente” il martirio nella persecuzione dell’imperatore Antonino, non si sa esattamente come, comunque risulta che sia stato ucciso e che il suo corpo sia inumato nel Sepolcreto Vaticano. Questa sembra sia stata la sua effigie:


Alla ricerca di qualcosa di più su di lui sono entrato su internet in quel mercatino globale costituito da E-bay, ed ho trovato in vendita persino una sua reliquia. Purtroppo per il destino di essere al posto giusto nel momento sbagliato, quando sono arrivato io, la reliquia era già stata venduta. Era una reliquia del 1700 forse messa in opera da un altro Igino come me, che non accettava da avere come protettore un santo anonimo, e si era inventato una reliquia. L’avrei comunque voluta acquistare, e spero l’abbia fatto un altro Igino, a me è rimasta solo la foto che riproduco come portafortuna per tutti gli Igino del mondo.


Confesso che la storia di Igino papa e martire mi ha fatto sempre incavolare. Possibile che a uno che è stato papa ed ha avuto anche la disgrazia di diventare martire, non sia state dedicata neppure una Chiesa, in giro per il mondo. Non dico una basilica ma almeno una piccola chiesetta di campagna!… Ho trovato che a Roma gli anno dedicato una strada, ma mi pare troppo poco…
L’ingiustizia tocca anche i santi! C’è un San Floriano che era un centurione romano, e poi è finito martire, e si ritrova una infinità di chiese dedicate e di pale d’altare nelle quali viene ritratto con un secchio a spegnere gli incendi. Ma possibile che a San Igino non sia venuto in testa che doveva fare qualche miracolo se voleva restare nella memoria del popolo? Poteva curare la peste come S. Rocco, se non voleva fare il pompiere come S.Floriano…Invece sì è limitato a fare il filosofo, ed ai filosofi, si sa, va già bene quando non vengono contestati e bruciati su qualche rogo…
Eppure da quel che risulta, pur avendo avuto solo quattro anni di pontificato, dal 138 al 142, ha avuto un ruolo importante nella storia della Chiesa. Ha organizzato la gerarchia distinguendo i vari ruoli di presbitero, diacono e suddiacono. Ha introdotto nel sacramento del battesimo la figura del padrino e della madrina… Ti pare poco? Ma non ha spento nessun incendio, non ha guarito nessun appestato…così non ha trovato nessuno che lo dovesse ringraziare costruendogli una chiesa, dedicandogli una ancona, o una pala d’altare…
Carissimi omonimi, converrete che si tratta di una grande ingiustizia! A me, confesso, questo nome non è che mi sia mai piaciuto. Ma il nome è qualcosa come il Dna, te lo ritrovi così com’è, che ti piaccia o no. Se poi ti è stato dato per sbaglio, pazienza! A me infatti per asse ereditario, toccava il nome di Luigi. Vista la mia dimensione iniziale (che non si è modificata con il tempo!) a qualcuno è parso esagerato quel nome, ha quindi pensato di ridurlo in Luigino. A questo punto una mia zia (così mi ha raccontato, orgogliosa!) ha avuto un colpo di genio ed ha pensato ad una ulteriore riduzione eliminando le due lettere iniziali, ed è stato così che sono finito a portare il nome d’un santo che con Luigi non aveva nulla a che fare. E’ un nome che non è piaciuto neppure ai Papi. Il suo successore infatti si chiamò Pio, ed altri poi hanno preso lo stesso nome fino al XII del secolo scorso. Igino invece è rimasto solo lui, primo ed ultimo…
Carissimi omonimi non so se è capitato anche a voi qualcosa del genere. Comunque, sia come sia, il motivo per cui ci chiamiamo Igino o Gino, dobbiamo fare qualcosa per riabilitare il nostro santo protettore. Io non riesco a digerire l’idea che anche tra i santi possa esistere tanta ingiustizia! Uno ha mille chiese solo perché ha un secchio in mano ed un altro invece che ha inventato i suddiaconi, il padrino e la madrina del battesimo, non ha neppure un altare ! Per l’11 gennaio chiedendo aiuto al nostro santo protettore, pensiamo a cosa fare perché venga ricordato più degnamente!!!….
Comunque chiediamogli almeno la grazia di non essere sempre, come lui, al posto giusto nel momento sbagliato!!!

mercoledì 5 gennaio 2011

Il suono delle campane.

“Anche il suono delle campane non è più quello d’una volta”. Non esageriamo con la mania di affermare che tutto è cambiato che nulla è come un tempo. A meno che non siano state per caso cambiate, se le campane sono le stesse, il loro suono non può essere diverso…
E invece sì, è cambiato anche il suono, da quando le campane vengono attivate da un motore elettrico, da quando c’è un orologio che le fa partire automaticamente.
Quando sentivi suonare una campana pensavi a chi la stava suonando, a chi stava tirando la corda nella cella alla base del campanile. E in qualche modo il suono si portava il suo pensiero. Suonavano a festa perché lui tirava la corda con la gioia nel cuore. Diffondevano nell’aria un lamento ed il cordoglio doloroso di tutto il paese quando annunciavano la morte di qualcuno. La sera dei morti poi, piangevano tutta la notte la nostalgia degli invisibili che si riprendevano le loro case, che tornavano a bere l’acqua preparata per loro. Le campane erano come uno strumento musicale esprimevano i sentimenti di chi le suonava. Lo stesso strumento è in grado di farci vivere l’emozione della gioia più intensa o del dolore più disperato. Così era per le campane del mio paese…Oggi l’orologio che le muove non può trasmettere loro nessun sentimento, e nessun sentimento trasmettono loro a chi le sente. Hanno il suono freddo d’uno strumento senz’anima, il suono d’un paese già morto, perché già senza anima…
Ma forse non è il paese o il suono della campana ad essere morto…