Nella notte dei tempi, ma nel più profondo della notte, vale a dire qualche milione d’anni fa, ove oggi svettano le Alpi Carniche, c’era l’Oceano. Nel profondo degli abissi del mare giaceva un terribile mostro: una orca di nome Carnia. Terribile si fa per dire, avendo mente alle sue enormi dimensioni. Come fosse di carattere non si poteva sapere dal momento che dormiva. E dormì sonni profondi nel profondo dell’oceano per migliaia d’anni. Sulla sua schiena andavano a morire di anno in anno tanti molluschi che un po’ alla volta le formarono un guscio come quello delle tartarughe, una enorme corazza di roccia.
Un giorno però, anche se non è dato a sapere come mai, Carnia l’orca si svegliò. Lentamente. Come ci si sveglia dopo millenni. Prese a muoversi pigramente cercando di scrollarsi da dosso tutta quell’acqua che le stava sopra. Si sollevò lentamente, e con un ultima scrollata spinse l’acqua nell’Adriatico. A seguito di tutti quei movimenti anche il guscio, prese a corrugarsi proprio come quello delle tartarughe, e in qualche punto anche a spezzarsi.
La luna che anche a quei tempi passava ogni notte di là, restò sgradevolmente sorpresa. “Era meglio la distesa del mare, piuttosto che quell’enorme panettone, venuto a galla un po’ alla volta. Ma se si dovesse prestare orecchio anche ai commenti della luna, si finirebbe per non apprezzare neppure il sole…Il sole comunque che anche a quei tempi splendeva sui buoni e sui cattivi, sui belli e sui brutti, prese a riscaldare anche l’orca Carnia. Ma era un sole ancora in fasce, come un bambino appena nato. Non aveva nessuna forza, dava luce, ma non trasmetteva nessun calore.…
Così la pioggia che cadeva sul guscio dell’orca prese a gelare. Non trovando altro di meglio da fare in tutto quel freddo, l’orca si riaddormentò. O meglio andò in letargo, come anche ora fanno gli orsi ed altri animali per difendersi dal freddo dell’inverno. Ma il sonno dell’orca durò di nuovo altri millenni, e sul dorso si formò nel tempo una coltre di ghiaccio, d’un spessore quasi pari a quello della crosta che avevano formato i molluschi in fondo al mare. Secondo i geologi si sarebbe poi risvegliata un paio di volte, agitandosi per alcuni millenni. Al calore del suo corpo non più in letargo, il ghiaccio ha così preso a sciogliersi corrodendo e scavando il guscio del grande animale.
La superficie che prima era uniforme è diventata nel tempo sempre più profondamente corrugata. Al secondo risveglio si distinguevano bene ormai due grandi scanalature che partendo dai bordi venivano a congiungersi più in basso, disegnando in mezzo un altopiano centrale. Ma un giorno ci fu il risveglio definitivo del grande animale. Il sangue dell’orca prese a riscaldarsi sempre più, e scaldandosi a sciogliere con sempre maggiore rapidità la crosta di ghiaccio. E l’acqua che usciva dal ghiaccio a scavare…Per giunta l’orca soffriva di terribili mali di pancia che la costringevano ad agitarsi lasciando uscire dei terrificanti brontolii. A quei movimenti scomposti il guscio si infrangeva, e nelle crepe entrava l’acqua a scavare ancora più in profondità. Si aveva l’impressione che l’Orca avesse come figliato due fiumane, che correvano giù nelle due scanalature, l’una quella che nel tempo prenderà il nome di Bute l’altra quella che si chiamerà Tilia.
Alla fine scioltosi tutto il ghiaccio, restarono le due fiumane a scorrere continuando a modellare la corazza dell’orca. Incidendo il fondo delle valli ed andando a ritroso come i gamberi per portare nell’Adriatico anche le piogge che prima erano costretta a scivolare fino al Mar Nero. Non più sole, nel frattempo infatti le due, s’erano fatte un amante ciascuna: l’una il Chiarsò l’altra il Degano. Dalle due coppie era nata una infinità di figli: torrenti, ruscelli, rigagnoli che continuavano a sdrucciolare sul dorso dell’orca Carnia, come il bulino dello scultore che rifinisce il suo capolavoro..
E la luna ripassando di notte in notte su quello che le era parsa un brutto panettone, fu presa ogni giorno di più dal disegno suggestivo che s’andava formando in un rincorrersi di valli più larghe e più strette, più alte e più basse, per lungo e per traverso, separate da un inseguirsi di bianche creste rocciose che s’alternano a vette avvolte nel verde dei boschi e dei prati. Ora nelle notti del plenilunio, pare quasi voglia fermarsi nel cielo per giocare con le ombre degli abeti, per vedere danzare le fate che hanno scelto queste valli per loro dimora.
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