domenica 8 ottobre 2023

Danrte Spinotti: un esempio.

 

            Dante Spinotti con Nicola Lucchi

            “Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta”.

 

            A leggere l’autobiografia che Dante Spinotti ha scritto assieme a Nicola Lucchi per la editrice “La nave di Teseo”, mi sono sentito nei panni di un pastore che, senza essere mai uscito dalla Carnia, un giorno s’è visto atterrare nei suoi pascoli una specie di marziano  che veniva dall’aver girato il mondo, dall’aver vissuto la vita fantastica di Hollywood.

            Ma non si trattava di  una marziano! Poteva sembrare impossibile ma era anche lui un carnico! Autentico, DOC. Non tanto perché è nato a Tolmezzo il 24 agosto di ottanta anni fa, ma perché è della stirpe degli Spinotti. Il nonno paterno Riccardo è stato, assieme a Cella  il fondatore della Cooperativa Carniva.            Nella casa di Muina in Carnia, ereditata dal prozio del padre, Giovanni Antonio Spinotti, Dante bambino, ha potuto “cimentarsi” con le attrezzature di un laboratorio fotografico. Poi ha potuto mettere a frutto la passione acquisita, al seguito dello zio Renato che faceva il fotografo nientemeno che in Kenya.

            Per recensire una biografia è necessario in qualche modo condividere gli interessi e la passione di chi ha scritto. Io, in comune con Dante, ho solo l’anno di nascita. A 17 anni io frequentavo il cinema ai terzi posti del “De Marchi” di Tolmezzo, lui faceva le prime esperienze con le cineprese in Africa.

            Io sono il pastore rimasto in Carnia lui s’è costruito un percorso di vita come direttore della fotografia in ambito cinematografico che viene ben sintetizzato già nel titolo del libro “Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta”.

            Ammirato, faccio mio con piacere il giudizio di Anthony Hopkins che lo definisce “uno dei più grandi direttori della fotografia italiani del XXI secolo” e mi fermo al giudizio di questo grande attore, quando aggiunge che Dante: «Ha un talento straordinario, usa la cinepresa per catturare quello che non è visibile a occhio nudo.»

            Non è affar mio recensire il libro di un direttore della fotografia, anche se mi pare di capire che ripensando la sua vita, Dante scrive brillantemente la storia del cinema degli ultimi cinquanta anni. Per questo vorrei provarmi a dire qualcosa sul  libro dell’uomo Dante, consigliandone la lettura in particolare ai giovani.

            È il romanzo di una vita che  inanella una serie di quelle che lui chiama “fortunate circostanze”, ma dalla quale emerge una grande capacità di “cogliere al volo le occasioni”.

            Nella vita di ognuno scrive si presentano dei “turning point”, momenti di cambiamento e trasformazione, che si deve avere il coraggio di affrontare.

             Ma se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, la vita di Dante, dimostra che è l’inventiva, la capacità di essere innovativi che consente di emergere.

            Al capitolo intitolato “fortunate circostanze” fa immediatamente seguito quello intitolato “parola d’ordine: sperimentare”. L’intuizione su un particolare gioco di luci, cambia l’immagine, riesce a rendere più intensa un’ emozione.       Questa sensibilità, questo intuito per l’invenzione,  che fa la differenza per il direttore della fotografia, può farla :in qualsiasi ambito ci si trovi ad operare. Ed è una sensibilità che in qualche modo ha a che vedere con le tue radici.

            Ho conosciuto Dante quando mi ha coinvolto nel documentario “Inchiesta in Carnia” con il quale avrebbe voluto “dare una scossa” ai Carnici. È la stessa scossa che dovrebbe venire ai carnici dalla lettura del racconto della sua vita. In particolare ai giovani che, a quanto si dice, si sentono soffocare dall’atmosfera civile e culturale che opprimerebbe la Carnia.

            Scrive a pag. 308:«Nella zona di Santa Monica in cui risiedo, mi capita spesso di uscire per lunghe camminate. Tutto e curato, sereno, impeccabile, ma nonostante questo manca qualcosa: Sono passeggiate che svolgo per lo più per il mio benessere psicofisico, per svagarmi o fare esercizio. In queste lunghe camminate, io mi annoio. Qualcosa che in Carnia, percorrendo gli stessi chilometri, in qualsiasi luogo, non accade.             In Carnia non ci si annoia perché è possibile sentire sotto i piedi migliaia di anni di cultura che in qualche modo ti appartengono. Significa percepire la bellezza di tutto ciò che ti circonda e che ti ha preceduto e che, evidentemente, ha lasciato un segno nel tuo DNA.»

            Volendo scrivere la mia recensione per i carnici, mi sono permesso di scrivere Carnia, dove lui ha scritto Italia. Ma non credo d’aver falsato il suo pensiero visto che poco prima aveva scritto: «C’è sempre qualcosa che in me si muove quando torno in Italia, soprattutto in Carnia, dove affondano le mie radici.»

                                   Igino Piutti dal sito “Cjargne Online”

mercoledì 4 ottobre 2023

Carnia domani.

 

          Ai tempi del mio impegno come amministratore pubblico (Sindaco di Tolmezzo e Presidente dell’Agenzia per lo sviluppo economico della montagna), pensavo che la montagna si dovesse salvare dalla piaga dello spopolamento, portando i posti di lavoro in montagna. Ora che mi interesso della storia (è appena uscita la seconda edizione della Storia della Carnia), m’è venuto il dubbio ch l’approccio si stato sbagliato.

            Nel nuovo capitolo che ho inserito, intitolato “Carnia in Crisi”, metto in evidenza come c’è una fuga in atto non motivata più dalla mancanza dei posti di lavoro, ma proprio dal rifiuto di vivere in montagna. All’entusiasmo di quelli che vengono da fuori e ne scoprono la bellezza, fa riscontro nei nativi  una sorta direi quasi di odio derivato forse dai maggiori sacrifici sia economici che personali che comporta la vita in montagna ma anche come rileva Patrick Heady, citato  nel mio testo, dal fatto che per i giovani non è facile vivere con un “popolo duro” in un’atmosfera sociale dominata dal binomio “invidia ed egoismo”.

            Comunque la si pensi, dalla storia si ricava che la Carnia, come in genere la montagna, è stata abitata intensamente, perché consentiva in qualche modo di sopravvivere. Prima nella forma comunitaria delle vicinie, poi anche nella parcellizzazione esasperata dei terreni,  l’erba dei prati consentiva di allevare degli animali che con i loro prodotti garantivano la possibilità di vita degli uomini. Ci si è spinti così a raccogliere fin l’ultimo filo d’erba a ridosso delle rocce, distribuendo gli insediamenti umani ovunque ci fossero dei fili d’erba da raccogliere.

            Ora che l’erba ha perso ogni valore, che senso ha investire per convincere la gente a restare dove è finita per necessità e non per scelta?

            Da altre parti si è saputo sostituire il valore dell’erba con quello della bellezza del territorio e si è sviluppata un’ economia basata sul turismo. Ci aveva provato anche la Carnia all’inizio del secolo scorso. Ma  come testimoniano i tanti alberghi chiusi, si è preso atto che non era dei carnici la vocazione al turismo.

            E quindi?

            In attesa che qualcuno mi aiuti a darmi una risposta, in una visione distopica, immagino la Carnia con i paesi tornati allo stato di vicinie, con i prati commassati nel diritto d’uso e gestiti da un’unica azienda agricola in grado di reggersi economicamente, nelle modalità dell’agriturismo. Azienda che diventa punto di riferimento per un nuovo originale movimento turistico di quelli che dalla pianura e dalle città vogliono salire in Carnia per approfittare del silenzio dei paesi diventato assoluto e recuperare l’equilibrio psicofisico. O per ricercatori, studiosi e intellettuali che collegati in rete con il mondo vogliono approfittare del silenzio per spremere meglio le meningi.