martedì 25 giugno 2024

Il Passo di Monte Croce con la lente della storia.


             Le tre iscrizioni su roccia che testimoniano gli interventi a modifica della viabilità verso il passo di Monte Croce Carnico sono state studiate da esperti archeologi come  Sticotti, Gregorutti, Koban e Placida Moro, non si può pensare di poter far meglio di loro esaminando i testi con  nuove lenti.

            Mi piace invece  pensare che le epigrafi non siano state esaminate alla luce della storia, e quindi mi permetto un esame con questa lente.

          


  A pag. 54 della mia Storia della Carnia riporto il passo della storia di Quintiliano Ermacora nel quale si dice che:

fu proprio Giulio Cesare a curarsi di rendere transitabile, attraverso quel monte, la strada che prima presentava non poche dificoltà. Chiara testimonianza di questo fatto sono alcune lettere incise in un grande sasso quasi a metà della salita del monte che dicono appunto« Julius Caesar hanc viam inviam rotabilem fecit- Giulio Cesare rese carrabile questa strada impraticabile.»

           A ulteriore conferma Ermacora riporta il passo del De Bello Gallico nel quale Cesare racconta d’aver preso due legioni che svernavano ad Aquileia e d’aver raggiunto la Gallia ulteriore per il percorso più breve qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat.

            Ermacora, personaggio della vita politico.amministrativa di Tolmezzo alla fine del 1500, può aver interpretato male il passo di Cesare ma non può essersi imventata la esistenza della iscrizione sulla strada di Monte Croce. 

            Peccato che non si trovi l’iscrizione, ma è fuori di dubbio che i Romani abbiano reso carrabile questa strada, vista l’importanza che aveva sulla via dell'ambra per Aquileia e il passaggio verso il Norico ai tempi di Cesare e di Augusto, che determinò la importanza e lo sviluppo di Iulium Carnicum..

            Peccato soprattutto che della originale  strada non si trovi traccia, se non nelle tre iscrizioni che si vedono ancora.

            Ma la prima, nota come Respectus, è fatta risalire al 170 d.C. quindi a dopo la distruzione di Julium Carnicum ad opera dei Quadi e Marcomanni. 

Scrivo infatti a pag.64 che “nel 167 d.C. sotto l’imperatore Marco Aurelio si formò una coalizione di tribù germaniche che, sconfitti i Romani a Carnuntum, imboccò la via dell’ambra e giunse in Italia attraverso il passo di Monte Croce. Distrutta Julium Carnicum senza difficoltà, assediarono senza successo Aquileia, per spostarsi poi e prendersela con Oderzo che rasero al suolo”

            Sappiamo dalla storia di Roma che questi barbari furono poi respinti da Marco Aurelio ed è logico pensare che, in ritirata, abbiano distrutto tutto ciò che poteva rallentare l’inseguimento, in particolare i ponti. Furono così senza dubbio distrutti i manufatti che i Romani avevano realizzato per rendere carrabile la salita al passo. Tant’è che, come si intuisce da ciò che si può leggere nella prima iscrizione, questo Respectus fu chiamato a riattivare la transitabilità della strada.

            Vi provvide in particolare realizzando un ponte come si deduce dalla  seconda epigrafe nella quale si legge bene che  perilcitante populo ad pontem transitum non placuit al popolo non andava a genio di transitare sul ponte a rischio e pericolo.

            Da questa epigrafe si ricava che  130 anni dopo nel 300 ca. d.C, un tale Hermia che si descrisse “susceptor operis aeterni - impresario di un’ opera eterna”, pensò di aver risolto definitivamente il problema,

            Il ponte di Respectus era di legno mentre Hermia rifà quello di Cesare che era in muratura? Mi pare plausibile!

            Ma quale era questo ponte?

            Il tracciato più logico della strada di Cesare è quello che venendo dalla strada romana che arrivava da Iulium Carnicum in sponda destra del But saliva attraverso l’attuale strada che porta a Malga Val di Collina. La lasciava ad un certo punto per  attraversare la montagna in quota, verso il passo di Monte Croce.   Qui  però si presentava il problema  del superamento del costone roccioso noto come Malpasso o Scaletta. La soluzione che anche oggi si può immaginare è quella d’un ponte in salita.

            Probabilmente in legno quello di Respectus sostituito con uno  in muratura da Hermias, rifacendo quello  di Cesare demolito dai Barbari. Così si può spiegare l’enfasi che mette nella epigrafe che mette alla conclusione del suo lavoro consistente appunto nella sistemazione della strada romana su cui era già intervenuto Respecuts, con il rifacimento del ponte e qualche correzione nella parte sommitale nel Chiampeit, da dove la fece per poi proseguire verso il passo addossata per quanto possibile alle pendici del Cellon dove collocò la sua inscrizione, convinto d’aver fatto un’opera a sfidare la storia.

            Per Placida Moro che fa sua la cartina riassuntiva  di Koban, l’intervento sul ponte sarebbe avvenuto non al Malpasso ma nelle varianti introdotte da Hermia nell’ultimo tratto: “La nuova strada ad evitare il precedente passaggio del ponte poco sicuro, deviava a sinistra del valico, subito dopo la roccia da cui era protetta, raggiungendo l’altura a destra del rio Collinetta”.  Anche per Molfetta si trattava d’un ponte per attraversare il rio Collinetta. 

    Seguendo invece lo Sticotti si è pensato a un marchingegno per superare il Malpasso, il pons sublicius ponte sostenuto da pali. Io propendo per questa ultima ipotesi, senza però pensare a strani marchingegni ma a un ponte ad una arcata in salita.

  L’attuale sentiero al Malpasso infatti sale zigzagando tra due rocce che possono essere viste come la spalletta del ponte. Una più bassa ed una più alta con un dislivello tra le due di 15 m. ca. e una distanza di una ventina di metri. Modificare le quote per ridurre la pendenza e unire le due spallette con un ponte, credo sia stato problema alla portata degli ingegneri romani.   

      Come lo è stato poi per Hermia che si riteneva “fides operisque paratus - preparato dal punto di vista della fiducia in sé e di quello delle competenze  tecniche” , in altra parole d’uomo di fede e di ingegno e che  per questo “unanimes omnes hanc viam explicuit - nel compiacimento generale rimosse gli ostacoli di questa via”

            Sottolinea: «Gli ostacoli di questo percorso, non di altri!»           

            Ma il fatto nuovo che cambiò la pospettiva della strada del passo fu la divisione in due parti dell’Impero Romano, quello di Occidente e quello di Oriente.

             Come scrivo a pag 68,  “Il fatto ebbe un rilievo importante anche per la Carnia. Per la prima volta infatti sulle Alpi Carniche si stabilizzò un confine: il limite che divideva la Provincia della Venetia ed Istria da quello della Pannonia inferiore”

            Un confine concordato, che non doveva passare, come ora, sulle creste delle montagne, ma per il quale presumibilmente si scelse come “stazione di confine” la spianata  che non a caso porta ancora il nome di “vecchio confine”.

            È il luogo dove si trova la terza epigrafe! Che quindi va letta in questo nuovo contesto.

            Placida Moro fa giustamente notare la stranezza di una iscrizione a metà strada, quando, (come  le altre), di norma si collocavano alla fine dei percorsi  che volevano celebrare.

            La possibile e verosimile  spiegazione potrebbe stare nel fatto  che nel 373, sotto gli imperatori Valentiniani, qui c’era il confine. Si conferma così la interpretazione  come Vecchio Confine e non Vecchio Mercato dell'espressione Oltn Moarkt , il nome che nel linguaggio timavese viene dato alla spianata sottostante la casa cantiera, dove si trova la epigrafe. Interpretazione suggerita da Molfetta e ripresa dallo storico locale Mauro Unfer e dall'esperto di toponomastica Giulio Del Bon

            E qui, al confine appunto, si fermò Apinio Programmazio, con la nuova strada realizzata perché “homines et animalia cum periculo commeabant- uomini e animali transitavano a rischio e pericolo.”

            Ma se si è fermato a questo punto significa che i nuovi rischi non erano quelli del Malpasso, e comunque non erano i problemi che Hermias, a ragione, pensava di aver risolto, ma quelli che  si erano presentati in basso, (a Masareit?) forse a seguito della piene che avevano asportato la strada (come quella che nel 1729 costringerà addirittura a spostare l’abitato di Timau!).

            Una situazione certamente  preoccupante che decise  Apinio  a cambiare versante. Lasciò la destra orografica per salire a sinistra, sotto al Pal Piccolo, per poi, alla fine del suo nuovo percorso deviare per scendere di qualche metro, sotto l'attuale casa cantoniera, e  collegarsi con la strada esistente di Respecus ed Hermias (è il percorso del sentiero cai 161). 

            In questo modo si riabilita anche Hermia, che è stato sbeffeggiato per aver fatto una opera eterna, che dopo solo 70 anni si dovette rifare. Se le cose sono andate così, l’intervento di Apinio, non mise in discussione l’opera di Hermia.

              Se le cose sono andate così, l’intervento di Apinio, non mise in discussione l’opera di Hermia che durerà invece fino a quando altri barbari in ritirata ripeteranno la demolizione del ponte fatta dai Quadi-Marcomanni.

            Se le cose sono andate a questo modo,  a questo punto è verosimile pensare che  gli abitanti della Pannonia per raggiungere il confine che si era costituito verso la Diocesi italiciana, abbiano trovato più semplice realizzare una diretta che scendeva a incrociare la nuova strada di Apinio, invece che fare il giro per il Malpasso.

             Si  aprì  così quella che ancora oggi va sotto il nome di strada romana e che anche Carpenedo attribuisce ad Hermia (io invece agli antenati degli austriaci) e descrive bene dicendo che si “inerpicava con sei piccoli tornanti sul costone delimitato dalla forra nella quale scorre il rio Collinetta, fino a raggiungere la quota del passo”. Il percorso che è stata dissestato dagli interventi per realizzare i tornanti della strada moderna, e che andrebbe recuperato e risistemato.      

           Come ricorda il Grassi c’erano così due strade “una carreggiata l’altra pedestre. Quella conducendo per le pendici del monte Collina ascendea per quella di Collinetta alla cima del monte di Croce, questa comoda in oggi anche per cavalcare, senza staccarsi dal monte stesso, passava per il piano su cui tenevasi  tra Tedeschi ed Italiani anualmente un famoso mercato, chiamato perciò ancor oggidì in lingua alemanna Alta Mark, ciè mercato vecchio. Ma poi quale delle due strade sia la più antica non si può additare..

            Ma nel frattempo, almeno sotto il profilo economico e sociale era già iniziato il Medioevo, la strada che progetta Apinio non ha le caratteristiche di quella militare di Cesare o di quella commerciale della via dell’ambra. Il fatto che, come scrive, si preoccupi del passaggio degli animali, (homines et animalia cum periculo commeabant) ci fa pensare che forse era già iniziato l’utilizzo dei pascoli alti con le malghe: la strada doveva arrivare al confine, ma anche servire al transito del bestiame.

            Per questo  quella di Apinio che ci è rimasta con il nome di strada romana non ha nulla a che vedere con quella che deve essere stata la vera strada romana del periodo d’oro di Julium Carnicum e dell’Impero romano.

                                       La strada romana dall’Archeocarta fvg.

           .

            Una strada per la quale gli storici sono incerti anche sul nome. Il Gregorutti in Archeografo Triestino chiama Julia Augusta la via fino a Gemona poi propone il nome di Claudia da Tiberio Claudio

            Anche io (a pag. 53) propendo per il nome di Via Claudia, piuttosto che di Julia Augusta, come collegamento diretto tra Iulium Carnicum e Julia Concordia, sempre in riva destra del Tagliamento, per superarlo ad Amaro, prima della confluenza  con il Fella.

Da Amaro al Passo.

            Per il percorso da Julium Carnicum a Timau propendo per ritenere  (come riporto a pag 67) come principale,  quella che Alfio Englaro considerava una alternativa, quando scriveva che:

            La strada parallelamente o precedentemente alla Via Claudia o Carnica, partendo da julium Carnicum risaliva la sponda destra del But, raggiungendo Ognissanti (Sutrio), attraversava il Gladegna sul ponte Gjai e lambiva Cercivento per salire a Enfretors e raggiungere Ramazàs Valacòz e poi Cleulis.

            Salire sulla destra del But oggi sembra impossibile ma, come conferma il geologo Venturini si deve tener presente che la morfologia della valle del But è stata sconvolta dal conoide di deiezione del monte Cucco ad Alzeri

            Avrebbe cominciato a formarsi circa nel 3000 a.C in concomitanza con lo svuotamento del grande lago di Sutrio e Paluzza il cui livello delle acque era a 600 m.

            Ma poi, in epoca romana, (datazione sulla torba della centralina di Noiaris II sec.d.C.) l’espansione del conoide con relativo falsopiano verso ovest aveva finito per creare un nuovo invaso, seppure di più modeste dimensioni; il lago di Soandri con livello intorno al 540. Infine dopo il XV secolo si è determinata  una inversione di tendenza, probabilmente causata dallo svuotamento del Soandri con il rio Randice e la But che hanno dato inizio a una fase recente di approfondimento erosivo.

            Ma tornando alla strada che sale al passo, da quanto si è detto, è fuori di dubbio che la vera strada romana saliva sul versante di fronte al Pal Piccolo. Chiara indicazione anche per gli ingegneri moderni a evitare che le pendici in sfacelo del Pal Piccolo, ripetano la situazione del “periclitante populo”.

            Saliva con un percorso simile a quello che i geologi Venturini e Comin suggeriscono di seguire per realizzare una pista forestale che diventi pista di emergenza mentre sono  in corso i lavori di sistemazione dell’ attuale strada, o di quelli che si renderanno necessari per realizzare una variante come suggerito dall’ing. Puntel o di quelli di più lungo periodo che sarebbero necessari nel caso si trovasse un accordo per superare le difficoltà tecniche ed economiche che impediscono la soluzione radicale del traforo, ottimale da tanti punti di vista.

          

            Aggiungerei soltanto che, superate le emergenze,  la pista deve essere vista come ciclovia a carattere turistico-culturale e per questo realizzata d’intesa con la Soprintendenza archivistica per receperare e valorizzare i resti della strada romana.

            Non credo ci sia un modo migliore per valorizzare la strada storica che quello di una pista  realizzata facendo attenzione a recuperare i resti della vecchia strada da percorrersi  in bicicletta (meglio in e-bike!)  con la possbilità di fermarsi quindi ad ammirare i resti della strada antica messi in luce e valorizzati costruendo la pista.

            

 La ricostruzione delle varianti di H. Koban, ripresa da Placida Moro.




La strada del passo dal  Medioevo ad oggi.

 

            Si ha motivo di ritenere che nel Medioevo siano state mantenute in esercizio entrambe le strade per il ruolo che comunque continuava ad avere il passo.

            Nel 1077 è per merito del passo che il Patriarca Sigeardo ottiene dall’imperatore Enrico IV di diventare Vescovo-Conte di Aquileia.

            All’imperatore sceso a Canossa per ottenere la cancellazione della scomunica i Principi ribelli avevano impedito il rientro per i passi alpini. Fu Sigeardo che gli concesse il passaggio attraverso Monte Croce.

            Passo che ebbe una grande importanza sotto i primi patriarchi “ghibellini” generalmente di origine tedesca e quindi filoimperiali, in collegamento stretto con Salisburgo.

            La storia del passo ha invece avuto un cambio repentino nel 1250 con il Patriarca Bertoldo di Andechs-Pomerania che cambiò fronte e diventò “guelfo” filopapale, ma soprattutto, per quanto ci riguarda, decise di rendere carrabile la strada per il canal del Ferro, ponendo le basi per lo sviluppo che avrà in seguito Venzone e Gemona.

            Per i Patriarchi successivi, in gran parte italiani,  la Carnia diventò quindi una colonia marginale e periferica dalla quale riscuotere tasse, avendo Tolmezzo come centro per la riscossione.

            Il passo divenne quello dei Kramàrs prima e degli emigranti dopo, che, transitavano a piedi, al massimo a cavallo, e quindi non più carrabile per mancanza di manutenzione.

            Così con Venezia, come poi con l’Austria e infine anche con la Italia, quando si decise di intervenire sulla strada per il Mauria, (inaugurata il 1890).abbandonando Monte Croce.

            Passo di Monte Croce divenne la via dei Kramàrs con Venezia. Poi con l’Austria la via per gli emigranti muratori. Forse non era rotabile ma molto utilizzato a piedi, per gli stretti rapporti tra Carnia e Carinzia, (lo stesso Jacopo Linussio fa il garzone in Carinzia)

            E si arriva alla prima guerra mondiale quando il passo inciso tra il Cellon e Pal Piccolo torna purtroppo a diventare importante come fronte di guerra.

            Nel 1907 gli austriaci cominciano ad avere dei dubbi sugli italiani che davano l’impressione di voler cambiare l’alleanza e si prepararono al peggio sistemando la strada di accesso. Pieni di speranza di pace nella iscrizione che si legge ancora scrissero l’auspicio “Possa essa servire al pacifico transito dei vicini paesi”. Ma le cose andarono per diversamente!

            Gli italiani in guerra dovettero comunque accontentarsi della “via romana” sistemata e delle portatrici carniche. Il governo italiano non aveva data peso alla richiesta di far diventare nazionale la strada di accesso con le motivazioni ben argomentate dal Marchi riportate da Carpenendo.

            Scrive Gransinigh “alla testata della val but la situazione si presenta quanto mai fluida perché solamente all’ultimo momento viene deciso di portare la difesa principale sulle posizioni della displuviale anziché in corrispondenza della bastionata Monte Crostis-Monte Terzo.

            “C’era una totale assenza di carrarecce e anche di mulattiere.”

            Il capitano Gressel proprietario di Plochenhaus e capo di una sorta di guardia civile, il primo giorno di guerra sali al Pal Piccolo e “quando gli alpini timavesi scorgono il capitano si tolgono il cappello e gli augurano buongiorno” Sic!

            Nel dopoguerra finalmente la strada rientrò nei piani di Mussolini di rafforzamento dei rapporti con la Germania e venne decisa dallo stesso che aveva preso nelle mani il ministero  dei lavori pubblici.

            Il progetto fu approvato il 1929 e la strada inaugurata il 30 giugno 1933, stranamente senza alcun riscontro sulla stampa locale. Perché, penso, paradossalmente rientrava nei piani segreti di Mussolini di rafforzamento del confine contro la Germania con il Vallo Littorio.

            La ditta Paladini di Roma che aveva vinto l’appalto riportò al passo le tre scritte che i romani avevano lasciato sulle loro strade. La grande  lapide è sormontata dalla lupa capitolina donata dal “Governatore di Roma” così si chiamava il podestà della capitale.

            Le esigenze di carattere militare imponevano che ci si tenesse al coperto e si realizzò così a ridosso del Pal Piccolo, come riporta Carpenedo “una strada molto bella nel posto sbagliato”, a detta dello stesso direttore dell’Anas del tempo.

            Che sia nel posto sbagliato lo si capisce a vista, da profani, ma viene confermato dalle relazioni dei geologi “un mix calamitoso che solo per una congiuntura favorevole non ha innescato finora anche una tragedia.(Venturini)”

            Ma l’Anas ha deciso il ripristino, già in corso.

            Mentre il buonsenso richiederebbe una variante sul tracciato della “vera” strada romana e se possibile un traforo, come si era auspicato negli anni 70 con la costituzione da parte della Regione della Società per il Traforo il gemellaggio Tolmezzo-Lienz.

            Se il recupero della strada storica può avvenire come si è detto con una pista ciclabile, l’importanza che questa strada ha avuto per la storia della Carnia, (che non a caso per Molfetta prende il nome di “ Via Commerciale”) può essere recuperata solo con una soluzione alternativa a quella che ha costretto il “periclitante populo” moderno, per motivi militari, a sfidare le cadute massi del Pal Piccolo in sfacelo.

            Sia quella del progetto proposto già da anni dall’ing.Puntel, che si affiancherebbe alla pista ciclabile, o, ancor meglio, quella del traforo che non è andata in porto negli anni settanta del Novecento.

            Questo insegna la storia. Ma come scriveva Gramsci è una maestra senza scolari. Non vorrei che, “all’italiana” si dovesse attendere che “scappi il morto” per capire la lezione. Mi dispiacerebbe che in futuro il passo di Mone Croce Carnico finisse per rubare la fama al ponte Morandi.






venerdì 21 giugno 2024

Alla scoperta della strada romana per il Passo di Monte Croce Carnico sul sentiero Cai 161.

 

    Nell’elenco del sentieri del Friuli Venezia Giulia il Cai denomina il 161 come “Via Julia Augusta”. Lo fa partire da Cercivento di sotto ed arrivare a Monte Croce, attraversando Cleulis e Timau, per un percorso interessante alla scoperta delle località di Ramazas e Raut. Otrepassato Timau ai Laghetti suggerisce di prendere a destra “la strada romana”, e arrivati alla Casa Cantoniera di scendere per alcuni metri sulla nazionale per riprendere sulla destra le indicazioni del sentiero che continua di nuovo come “romea strata”,

            La passeggiata può partire anche da qui, lasciando l’automobile ove la strada è interrotta per i lavori in corso di sistemazione, dopo l’imponente frana dal Pal Piccolo.

             Volendo trasformare la passeggiata in un percorso alla scoperta della storia del passo, si può raggiungere la casa cantoniera, per ammirare nel pianoro sottostante, la iscrizione che va sotto il nome di “munificentia” dal nome della prima parola. Siamo all’arrivo del primo tratto della strada romana che avremmo percorso se avessimo seguito le indicazioni del Cai. La iscrizione ricorda che la strada, è stata realizzata da tale Alpinio Programmazio ai tempi degli imperatori Valentiniano e quindi nel 370 d.C.

            Riprendendo le indicazioni del Cai sul sentiero 161, si abbandona però questa strada romana, per prenderne una precedente, quella sistemata da un tale Respectus, come si avrà modo di leggere nella epigrafe posta all’arrivo in prossimità del passo.

            Attraverso un facile percorso su strada mulattiera, si arriva ad incrociare il tornante della strada che porta ai pascoli di Val di  Collina.




Si gira a destra e si incontra il contrafforte del Malpasso che per secoli ha creato problemi agli ingegneri romani. Il passaggio, sistemato alla bell’e meglio non presenta difficoltà per chi sale a piedi. Ma che soluzioni si sono dovuti inventare gli ingegneri romani per superare con i carri il salto di una quindicina di metri, non potendo non essere carrabile questa  strada di collegamento tra Aquileia e il Norico?

            Non ci è rimasta traccia! La strada che era servita a Roma per la conquista dell’attuale Austria, nel momento di crisi dell’Impero romano diventò la strada attraverso la quale scesero  i barbari. Nel 167 i Quadi-Marcomanni distrussero Iulium Carnicum. In ritirata, inseguiti dall’esercito di Marco Aurelio, come è normale per un esercito in fuga, distrussero tutto ciò che poteva agevolare gli inseguitori, e quindi in particolare il manufatto che consentiva il superamento del Malpasso. Fu chiamato a riparare i danni negli anni immediatamente successivi il Respectus che troveremo in epigrafe al passo.

            Non si sa come abbia risolto il problema, ma è indubbio che non aveva più i mezzi del periodo d’oro dell’Impero Romano. Ha certamente costruito un ponte, perché come si legge nella  epigrafe, collocata vicino alla precedente, un tale Hermias, ai tempi dell'imperatore Diocleziano verso il 300 d.C, e quindi cento e trenta  anni dopo, ha dovuto intervenire perché “periclitante populo ad pontem transitum non placuit - al popolo non andava di passare sul ponte a rischio e pericolo”.

           Hermias scrive d’aver fatto qualcosa destinato a durare per l’eternità. Non si sa bene che cosa abbia fatto, ma non deve aver risolto il problema se, come abbiamo letto nella prima epigrafe, solo settanta anni dopo, poiché “homines et animalia cum periculo commeabant, sia gli uomini che gli animali continuavano a passare a rischio e pericolo” si decise per la soluzione radicale, e ci si portò  sotto al Pal Piccolo, realizzando il percorso che sale in diretta verso il passo in continuazione di quello che si è  lasciato alla Casa Cantoniera e che ci è rimasto con il nome di "strada romana"..

            Mentre si sale sul sentiero suggerito dal Cai, si hanno di fronte le pareti a strapiombo della montagna che “a vista” si sta sfracellando. Si vedono i tornanti di quella che nel suo libro  sulla strada di Montec Croce, Carpenedo definisce giustamente “un strada molto bella nel posto sbagliato”. Da profani si è portati a pensare che la “furbata" di Programmazio (o già di Hermias?) di cambiare il versante per superare la difficoltà del Malpasso, non sia stata proprio così intelligente. La moderna strada “nel posto sbagliato” è stata realizzata perché quello era il posto migliore per evitare le artiglierie austriache, ma ora che fortunatamente sono venute meno le esigenze di tipo militare, non si riesce a capire perché si debba insistere, mentre il Pal Piccolo diventa sempre più minaccioso.

            Ma in conclusione quale era il vero tracciato della Julia Augusta? Le tre epigrafi, risalenti tutte al periodo di crisi e decadenza dell'Impero romano,  non ci dicono come era la strada voluta e percorsa dai Cesare e Augusto. Per me  era la prosecuzione di quella che si è lasciato come sentiero cai 161 a Timau. In una situazione orografica diversa da quella attuale,  continuava sul tracciato che ora porta alla malga Val di Collina che poi lasciava all’altezza del tornante che si è incontrato, per attraversare il Malpasso e raggiungere Monte Croce. E sono d'accordo con Alfio Englaro quando scrive  che questa strada partiva proprio da Julium Carnicum e saliva mantenendosi sempre in destra But quando tra Arta e Sutrio non c'era il falsopiano di Alzeri provocato dalla frana del Monte Cucco),

            Così la penso io!. Ma il darsi una risposta può essere motivo di discussione per rendere ancora più piacevole la salita al Passo di Monte Croce, obbligatoriamente a piedi, visto che la frana del Pal Piccolo impedisce la salita in macchina. Io mi sono dato una risposta nel post precedente "alla luce della storia", ma potrei anche aver preso un abbaglio.!!!

Al MALPASSO si può pensare di essere davanti alle spallette naturali, a quote diverse, di un ponte. Il sentiero si inerpica some se dovesse passare sotto al ponte. Ma non deve essere stato difficile collegare le due spallette con un impalcato in legno in salita, quello che lo Sticotti chiama il pons sublicius-posato su travi.

 Ma a me piace pensare che, per l'importanza della strada, gli ingegneri romani abbiano risolto il problema con l'arcata di un ardito ponte in muratura in salita, demolito dai barbari in ritirata, di cui forse si dovrebbero trovare dei resti nel bosco sottostante.

             

venerdì 3 maggio 2024

Carnia in crisi.

 Nella nuova edizione della mia STORIA DELLA CARNIA ho voluto inserire un capitolo completamente nuovo intitolato Carnia in Crisi che qui  trascrivo per i miei lettori.

             Facendo mia la battuta di Giorgio Ferigo con la quale si chiude il capitolo  precedente, nella prima edizione,  avevo da un lato sottolineato il male della Carnia,  in crisi perché  travolta dalla frana demografica, dall’altro, avevo fatto emergere una sorta di sconforto nella constatazione che il male è incurabile, il movimento della frana inarrestabile.

            Questa conclusione è in evidente  contrasto  con il proposito che mi ero posto di scrivere la storia della Carnia, pensando che potesse fare da “magistra vitae”, che vi si potessero cogliere utili suggerimenti per superare la crisi in atto, per avere qualche indicazione su come ritrovare una via d’uscita.

                       Alla luce di questa considerazione, in questa riedizione ho sentito la necessità  di riprendere alcune  osservazioni, a volte già accennate nei capitoli precedenti,  per un riflessione complessiva sulla crisi. Sia sulle cause che sulle soluzioni. Senza la pretesa di fornire  una ricetta, ma limitandomi a  fornire degli spunti, a volte delle  provocazioni, per rilanciare il dibattito sul tema.

                       Il fenomeno dello spopolamento, si è già visto, è stato studiato da Giovanni Pittoni assieme a Michele Gortani, addirittura già nel 1932, quasi un secolo fa. Un assestamento naturale era persino necessario, perché c’era stato un eccessivo aumento della popolazione, rispetto alle risorse di cui dispone il territorio. Ma Pittoni, che pur rilevava questo squilibrio, metteva in guardia perché il segnale doveva già preoccupare, perché, a suo avviso, avrebbe potuto costituire  l’avvio di un fenomeno poi inarrestabile. Sul principio di Macchiavelli per cui gli argini si devono costruire prima che arrivi la piena, si chiedeva subito, assieme a Gortani, quali potessero essere le cause e quindi quali i possibili rimedi per un fenomeno che riguarda la Carnia, ma che interessa tutta la montagna.

                       “Causa fondamentale dello spopolamento nella montagna friulana”, scrive Pittoni, “è il disagio economico. La nostra regione di montagna non dà, e non può dare il necessario alla vita se non a una parte dei suoi abitanti”. Il rimedio per lui sta in un più razionale utilizzo del territorio, in un aumento della produttività, in aumento quindi del reddito pro capite.

                       Anche alla fine del Novecento si è continuato ad affrontare il problema dal punto di vista economico, e sotto questo profilo in qualche modo si sono anche trovate delle soluzioni, se, come ho  già    accennato, si riscontra addirittura un fenomeno di pendolarismo alla rovescia. Da una recente indagine è emerso infatti che sono quasi mille i posti di lavoro in Carnia occupati da persone che quotidianamente salgono dalla pianura a lavorare in montagna.

                       Questo dimostra che, risolto il disagio economico, il problema persiste e per questo presenta caratteri di maggiore gravità. Qualcuno ha dato la colpa all’attrazione esercitata dai territori della pianura, nei quali non si devono sopportare i disagi legati all’orografia montana. Ma, per me, c’è di più, c’è all’origine  una forma di “rifiuto” proprio della Carnia che si è venuta formando nella storia. Si è finiti a volgere in negativo quello che, nella storia, era stato l’orgoglio di sentirsi carnici.

                       Paradossalmente, quello che era stato il sentimento d’amore per il proprio paese che aveva indotto per secoli generazioni di Carnici a emigrare portando in paese i frutti del  peregrinare come “kramârs” e poi della abilità nei mestieri pesanti del muratore o del boscaiolo, è diventato un atteggiamento di rigetto. L’amore si è convertito nel suo opposto: è diventato odio.

                       Da quando e perché? Domande non facili, per le quali si possono ricercare risposte in ambiti diversi. Non ultimo, tuttavia, anche in quello della storia.

                       Nel capitolo precedente si è detto che la storia contemporanea della Carnia secondo alcuni studiosi si può far partire  dalla istituzione della Regione a Statuto speciale nel 1963, per altri dal terremoto del 1976. Ma, in più, ritengo si debba prendere in considerazione anche la data  del  1960, come propone l’antropologo  Patrick Heady.

                       Non è una data alla quale si possa collegare qualche avvenimento scatenante, ma è negli anni attorno a quella data che la Carnia, a suo avviso, avrebbe subito una radicale trasformazione dal punto di visto sociologico e addirittura antropologico.

                       È questa la conclusione a cui è arrivato con la sua tesi di dottorato al Dipartimento di Antropologia Sociale della London School of Economics, elaborata dopo una serie di soggiorni in Carnia tra il 1989 e il 1994 e pubblicata a cura del Coordinamento Circoli Culturali della Carnia con il significativo titolo di “Il Popolo duro”

              L’idea che si è fatto Heady del popolo carnico è quella di un popolo “duro”  che negli anni sessanta del Novecento “sta vivendo una fase di profonda trasformazione caratterizzata dal fatto che  invidia ed egoismo assieme denotano uno stato di ostile e avida competizione che minaccia di diffondersi nelle vita sociale”.

              Molti, commentando la prima edizione, ove già avevo riportato questa considerazione, hanno tenuto a dirmi che con questa citazione avevo in qualche modo colto veramente  l’essenza della “carnicità”. Per questo, alla ricerca di suggerimenti per il presente, in questo capitolo della riedizione,  mi sono  provato a rileggere  la storia della Carnia anche  alla luce di questa intuizione di Heady.

              In sintesi la sua teoria é che la vita dura della montagna ha fatto del popolo carnico un popolo “duro”, perché la difficoltà nel garantire la sopravvivenza ha sviluppato il diffondersi dell’egoismo e  dell’invidia. La  necessità di proteggersi dall’invidia ha portato poi gli individui a chiudersi.

 

                          Perché “un uomo è “dûr” se resiste alle critiche e all’appello dei sentimenti concentrandosi su se stesso e sulla propria famiglia, così diviene “sierât” nei rapporti interpersonali.

 

                           Invece che fare dell’invidia  un motore di sviluppo, lo stimolo a fare meglio degli altri, il sentimento si è sviluppato  in negativo, cioè come sforzo per impedire agli altri “di diventare migliore di me”. L’invidia è diventata così la capacità dell’invidioso di fare del male o comunque di impedire di fare qualcosa,  di “striâ”, di gettare il malocchio.

                          Alcune persone vengono individuate come particolarmente capaci di influire negativamente sulla vita degli altri, di fare del male e vengono segnalate come streghe. L’incrociarsi di questa attribuzione del potere di “striâ” da una famiglia all’altra, determina un’atmosfera sociale soffocante ed  invivibile  dalla quale si cerca di liberarsi abbandonando il paese.

                          In qualche modo anche la Chiesa locale asseconda la teoria e le pratiche religiose diventano pratiche della superstizione contro le streghe. L’ulivo, la cera benedetta, l’acqua santa diventano amuleti da utilizzarsi per difendersi dall’invidia.

                          Nella edizione precedente ho riportato questa analisi di Heady, ricordando la figura di Linussio, quasi a dire che,  invece, chi riesce a sfondare la cappa dell’invidia, nello slancio finisce per diventare un fenomeno di intraprendenza.

                            Ma se questa interpretazione può spiegare il fenomeno dei tanti emigranti carnici che si sono affermati all’estero, allo stesso tempo può aiutarci, per converso, a capire il fenomeno della fuga in atto.

                         

                          Rileggendo la storia della Carnia alla luce delle sue considerazioni antropologiche si possono individuare tre fasi distinte.

                           La prima è quella dei tanti secoli nei quali, abbandonata dai Patriarchi prima e da Venezia poi, la Carnia si è venuta organizzando in autonomia.  La seconda è  quella dei tentativi fatti prima con l’Austria e poi con l’Italia di adattarsi al nuovo ordine imposto da Napoleone  e riconfermato dagli Asburgo. La terza è quella che si sviluppa nel secondo dopoguerra, con la presa d’atto che la convivenza in Carnia è impossibile e che è quindi preferibile abbandonare il territorio.

                                   Forse a partire già con i Longobardi e comunque poi con i Patriarchi e Venezia, la vita sociale della Carnia si era organizzata avendo come punto di riferimento i paesi. La viabilità era di norma difficoltosa, i collegamenti precari, e per questo i paesi, facendo di necessità virtù,  si erano organizzati come organismi autonomi e autosufficienti. 

                       Se, come ritiene Heady, invidia ed egoismo sono gli elementi connaturali del carattere dei Carnici, la comunione dei beni che caratterizzava i “Communs”,  i paesi-comuni in qualche modo faceva sì che gli effetti negativi del carattere si annullassero, o, al contrario, si assommassero, per diventare il campanilismo che caratterizzava il confronto tra i paesi. La rotazione annuale delle cariche impediva il prevalere di qualcuno sugli altri. Il regime comunista della proprietà eliminava i confini motivo di attrito. Il conflitto generato dal binomio invidia ed egoismo, assorbito all’interno della comunità, si trasferiva  a livello del confronto tra paesi.

                                   Con i decreti di Napoleone che eliminò le Vicinie, ripresi poi dall’Austria con la messa in vendita dei beni comuni e la introduzione della proprietà privata  nei paesi, si ottenne il risultato di introdurre  all’interno del paese i confini che prima erano tra paesi, introducendo i conseguenti conflitti.

                       Nacque una Carnia diversa con i paesi diventati in breve  un groviglio di tensioni e di conflitti. Caratterizzati da questa conflittualità interna, i paesi affrontarono le due guerre mondiali che esasperarono i contrasti. Nella prima si divisero tra chi fuggì dopo Caporetto e chi invece decise di restare. Ma il rientro avvenne in un clima di accuse su che cosa aveva  rubato chi era rimasto in paese, e si arrivò ad accusare i paesani anche dei danni provocati dall’esercito occupante.

                       Nella seconda guerra mondiale quella che viene enfatizzata come l’estate di libertà è stata in effetti l’estate delle vendette personali: bastava scegliere a chi si voleva denunciare qualcuno accusandolo di qualcosa. A secondo dei casi, scegliendo tra tedeschi e partigiani. Non per nulla i morti tra i civili di questa guerra locale, sono stati più numerosi dei morti in armi.

                                   Uscì dalla guerra una società civile profondamente segnata dalla guerra. Ma, malgrado tutto, i paesi mantenevano la loro vitalità interna. A tenerli assieme c’era ancora l’economia di paese. L’attività, comune a tutte le famiglie, era quella dell’allevamento del bestiame. La latteria era per tutti il punto di riferimento e di incontro.

                       E c’era anche qualcosa in più che andava oltre all’economia e che veniva dalla storia. È vero che per colpa di Napoleone i paesi avevano  perso l’autonomia di cui avevano goduto precedentemente, ma fra le case si sentiva ancora il fascino della identità di paese.

                       Lo si lasciava provvisoriamente per necessità, perché così voleva il destino. “Perché è naturale sia così”. Ma  lo si lasciava con rimpianto. Lo si pensava con nostalgia, lo si ritrovava a Natale con gioia.

                       È questo fascino che viene dalla storia, questo sentire il paese come valore che fa ancora da collante. Ci sono i conflitti tra persone, ma passano in secondo piano quando ci si deve riconoscere nella identità di paese. Non c’è più la “Vicinia” con il Meriga, ma c’è la latteria che ha come soci tutte le famiglie, con il Presidente che viene eletto ogni anno nell’assemblea che è di fatto assemblea di paese, e c’è la Società Operaia. C’è la chiesa con le sue feste, che hanno sempre meno un significato religioso, ma che vengono sentite come manifestazioni della identità del paese, ci sono le osterie, come centri sociali di aggregazione..

                       Negli anni sessanta del Novecento invece c’è la svolta, la rottura. Per qualche motivo si rompe il collante e viene a galla la società  che stupisce Patrick nella quale emergono l’egoismo e l’invidia. I pesi diventano invivibili perché la vita della comunità si trasforma in un intrico di conflitti, per ragioni economiche ma anche semplicemente per questioni di principio.

                          Egli ha voluto vivere del tempo  in Carnia per studiare la trasformazione, io  ho avuto modo di vivere da ragazzo la Carnia durante quella che lui considera la fase del cambiamento. La sua riflessione mi consente  di spostare sul piano generale anche le considerazioni legate alla mia vicenda personale.

                       Come rileva Heady, “invidia e egoismo si associano a creare uno stato di ostile e avida competizione che minaccia di diffondersi nella vita sociale.” Ne ho avuto la prova anche io quando, non ancora ventenne, al fine di mediare, come estraneo alle  “beghe di paese”, sono stato eletto Presidente della latteria in una assemblea assistita dai carabinieri a rappresentare il clima che si era creato.

                       Anche io poi ho avuto modo di riscontrare, soprattutto nella generazione dei nonni, il racconto d’un paese ammorbato dalla presenza di dannati e streghe e quindi del clima di difesa che istintivamente gli individui sentivano di dover erigere per proteggersi dal “potere” dell’invidia.

                        È stata questa sensazione dell’atmosfera mefitica che si respirava in paese, a fare da incentivo per abbandonare il paese, a favorire favore l’emigrazione di massa?

                       Certamente non solo! Ma forse anche! Si sono cercate le spiegazioni dal punto di vista economico e sociale, ma forse ci si è dimenticati di esaminare questo “anche” e quindi l’aspetto antropologico suggerito da Heady.

                        Nella sua interpretazione, il binomio negativo invidia-egoismo che era stato in qualche modo superato  nel valore che si attribuiva alla idea di paese,  pare quasi sia esploso e abbia creato una repulsione, una sorta di ostilità e di odio verso tutto ciò che rappresentava e ricordava il paese.

                        Heady assume il 1960 come data del verificarsi del fenomeno. La data ha evidentemente un valore emblematico perché i cambiamenti sociali maturano nel tempo, a meno che non sia legata a qualche episodio scatenante. Non c’è nulla infatti nella storia della Carnia che possa essere associato a quella data, a meno che non la si assuma come data dell’arrivo del boom economico.

                       Comunque  anch’io concordo con lui nell’affermazione che nei decenni a cavallo di quella data la Carnia ha subito un cambiamento radicale, si sono “determinati mutamenti radicali della società che hanno influito sul senso dell’identità locale dei singoli individui”.

                       Non i tutti i paesi allo stesso modo.

                       Paradossalmente il cambiamento ha fatto seguito al modificarsi delle condizioni di isolamento, con la realizzazione di una viabilità che “portava l’automobile” anche nei paesi più emarginati. La strada, che avrebbe dovuto  migliorare le condizioni dei residenti, è diventata il canale attraverso il quale si è introdotta  la “modernità”, intesa come un altro modo di vivere, con altri valori, che non erano quelli della tradizione del paese, anzi erano l’opposto.

                       Per questo si arrivò a rinunciare al  paese, prima come rifiuto del modo di vivere, poi come abbandono definitivo per trasferirsi altrove. Significativa del cambiamento in atto è stata la foga, ricordata anche nel capitolo precedente, con la quale in molti si sono voluti disfare della storia della propria famiglia, rappresentata dal mobilio della casa.

                       Si cambiano i mobili  regalando quelli di valore carichi di storia, realizzati con il legno dei noci del luogo, da artigiani del luogo, in cambio di quelli di formica colorata. La foga a sconfessare il passato, monta come la nebbia nelle giornate di pioggia che sale e avvolge le case, e dai mobili si passa al paese.

                       Quello che prima era stato il “l’orgoglio di paese”, le tradizioni, le feste, la socialità dell’osteria, diventano elementi negativi da ripudiare. Una storia di paese fondata su legami di profonda empatia  che stupisce Heady, diventa una stupida guerra per cose da nulla che diventano fatti “di principio”. Egli scopre tracce di questa storica e profonda empatia che faceva da collante nei paesi, persino in alcune modalità della parlata locale. Ad esempio nel salutare un nuovo arrivato con una battuta che potrebbe sembrare senza senso: “Sestu rivât- sei arrivato?” invece del buon giorno. Una battuta fuori della logica, ma che esprimeva il piacere con cui si era atteso l’incontro, e forse anche l’apprensione, visti i pericoli che si correvano spostandosi sui sentieri precari che univano i borghi.

                       Ma in analogia con ciò che avviene  in una famiglia  che  si sfascia e vede trasformarsi  i rapporti di amore in sentimenti di odio, così nel paese che si è rotto, l’empatia, il sapersi mettere nei panni degli altri, invece che amicale condivisione, diventa intollerabile invadenza, pericolosa ingerenza. Secondo Heady, la diffidenza arriva al punto di ritenere che ci siano negli altri capacità di trasmettere influenze negative, di “striâ”, di gettare il malocchio.

                          Egli cerca una spiegazione nelle teorie antropologiche. Ma forse la spiegazione è più semplice, sta nel fatto che il paese si è sciolto, come direbbe Zygmunt Bauman, è diventato “liquido” perché si è liquefatto il sistema dei rapporti, è cambiato il modo di vivere il paese, perché è cambiato il modo di essere delle famiglie.

                           Un cambiamento che io ho vissuto e di cui posso dare testimonianza, continuando a spostare sul piano generale le considerazioni legate alla mia esperienza personale.

                       Sulle orme di mio padre, nel 1960 mio fratello ha preso a fare l’emigrante. Io ho preferito cercarmi un lavoro in Patria.  Ma tra il modo di emigrare di mio padre e quello di mio fratello  (e di tutta la nuova generazione di emigranti),  c’era un abisso.

                       Prima gli anziani vivevano all’estero nella nostalgia del ritorno, nel richiamo di un paese sentito come un valore, addirittura un ideale. Negli anni sessanta del Novecento si prese a emigrare come fuga dal paese. Abbandono. Rifiuto di  un ambiente nel quale non si trovava più nulla di apprezzabile che giustificasse il mantenimento di un rapporto, men che meno che alimentasse sentimenti di nostalgia.

                        Per questo gli anni sessanta del secolo scorso sono stati anni cruciali per la storia dei paesi. Il cambio radicale nel modo di emigrare ha messo in moto la frana demografica.

                       Anche nell’immediato secondo dopoguerra il fatto che gli uomini dovessero emigrare, che le donne dovessero gestire l’azienda agricola, che i figli dovessero vedere il padre un mese all’anno, come si è detto, era scontato, in qualche modo naturale. La nuova generazione degli emigranti, quella dei nati negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, ha invece radicalmente modificato il rapporto con il territorio, proprio perché ha sentito l’assurdità del modo di vivere ritenuto normale sulla base della tradizione.

                       Un’assurdità che emerge dal confronto con i modi di vivere  e di concepire la vita con cui  l’emigrante viene in contatto all’estero.    Si abbandona quindi il paese. Definitivamente. Oppure investendo nella casa che, diventando casa per ferie, diventa elemento per confermare il proprio successo ottenuto fuori dal paese e malgrado l’invidia del paese.

                       Si trattava comunque ancora di episodi, non in grado di modificare la realtà del paese.       Solo quando ha deciso di partire anche mia madre, ho capito che qualcosa stava cambiando in modo radicale e definitivo. La sua decisione era una spia della rivoluzione in atto, messa in moto dalla generazione di donne nate a cavallo della guerra e giunte alla maggiore età appunto negli anni sessanta, che aveva contagiato anche lei, sebbene d’un’altra generazione.

                       A cambiare la Carnia è stata la decisione di queste giovani donne  di rifiutare il ruolo imposto dalla tradizione plurisecolare di “angelo del focolare”, che nella fattispecie e all’atto pratico significava essere l’angelo della stalla, con la gerla al posto delle ali.

                       Meglio un lavoro  anche a servizio, ma fuori dal paese, fuori dalla stalla, finendo  così quasi  a identificare in negativo  il paese con la stalla. C’è una immagine emblematica che si ripete negli scatti di molti fotografi del tempo, quella della processione di donne che portavano la gerla carica di letame. Una scena a cui ho assistito più volte anch’io. Arrivate nel prato da coltivare si piegavano in avanti e con un gesto atletico scaricavano il letame. In quegli anni, con lo stesso gesto hanno finalmente deciso di scaricare e abbandonare sul terreno anche la gerla!

                       C’è stato un tentativo di intervenire con il rimedio delle stalle sociali che avrebbero tolto alle donne l’onere di essere in servizio nella stalla, mattino e sera, per  trecentosessantacinque giorni all’anno.          Ma l’esperimento è subito fallito, perché le rivoluzioni non si fermano a metà, il rifiuto delle donne a restare nel solco della tradizione plurisecolare, si è consolidato e diffuso a macchia d’olio e in breve tempo ha caratterizzato tutta la Carnia.

                       La volontà di abbandonare il paese è stata una reazione al  clima di cui parla Heady, all’asfissiante controllo sociale che caratterizzava i paesi nei quali l’empatia si era trasformata in  invidia, la condivisione in malanimo?    

                       Oppure è derivata dalla semplice constatazione che non aveva senso una vita di sacrifici troppo grandi, ripagata da  guadagni troppo miseri? Forse da entrambe le motivazioni. Ma il saperlo è secondario rispetto alla constatazione  che dalla rivoluzione femminile ha preso  l’abbrivio la frana demografica.

                       Che questa sia stata la rivoluzione che ha cambiato la storia della Carnia appare evidente se si considera il ruolo che la donna aveva nella società carnica del momento. Ai tempi delle Vicinie si lavorava assieme nei “beni comuni” e i mariti “non disdegnavano l’agricoltura” come scrive Quintiliano Ermacora, e quindi durante l’estate aiutavano le mogli. Poi, dopo Napoleone, da un lato ci fu il passaggio alla proprietà privata, dall’altro ci fu il cambio nel sistema dell’emigrazione. Non più kramârs ma muratori, i mariti furono costretti a emigrare l’estate.

                       Le donne si trovarono così ad avere la completa responsabilità della gestione dell’azienda agricola familiare. Non a caso in Carnia la moglie per il marito non è “la mia signora” ma la “mȇ paròne” la mia padrona. Titolare di fatto se non di diritto della azienda-famiglia.

                       Si suole dire che “a ten su trê cjantons” sorregge tre angoli della casa. È naturale che se cedono d’un tratto tre angoli, cede la casa e, di casa in casa, cedettero gli angoli su cui si reggeva il paese.

                        Tornando invece allo studio di Heady, mi pare di dover convenire che si è verificato anche un fenomeno di dissoluzione dei paesi sotto il profilo dei valori che li aveva caratterizzati  nella storia.  Il paese, con il cimitero monumento alla sua storia, ponte tra passato e presente, era la terra dei padri, era la patria dove alla fine  ognuno avrebbe voluto rientrare per garantire la continuità “di generazione in generazione”.

                       La lingua viene definita l’anima di un popolo.  Se questo è vero, per la Carnia si dovrebbe dire che ogni paese si era costituito come popolo a sé. Paesi confinanti, come s’è visto, avevano sviluppato una lingua diversa, nelle cadenze e anche in certi termini. Una originalità che era  diventata orgoglio di paese, il sentimento di superiorità con il quale si faceva lo sfottò della lingua degli altri.

                       Ma poi arrivò il maestro e nella sua casa si parlava italiano, arrivarono i cultori della lingua friulana a dire che il friulano è un altro, quello della koinè. Ci si doveva vergognare della lingua del paese, con le sue peculiari cadenze, con la sua originale musicalità.       Divenne elemento di vergogna quello che era stato sentimento d’orgoglio!

                       La chiesa, prima ancora che il luogo del culto e  della religione, era il monumento nel quale si identificava il paese. Nella costruzione che era costata tanti sacrifici, perché la si era voluta più bella o più grande di quella dei paesi confinanti, ma anche nel come la si viveva nel cerimoniale. Sulla stessa base, ogni paese aveva sviluppato persino una variante, “ghenghe”, diversa per i canti liturgici. Ma arrivò il prete da fuori e invece di adattarsi al paese, obbligò il paese a rinunciare alla sue  tradizioni. Nessuno cantò più la “messa vecchia” nella variante del paese. Si introdusse l’obbligo del gregoriano, si rinunciò al latino per l’italiano o addirittura per il friulano.

                       Le parole del latino erano come quelle delle formule magiche, incomprensibili, ma cariche di significati simbolici. Pregare in una lingua che non si comprendeva era come usare un linguaggio che solo Dio poteva capire. ParlarGli conoscendo il contenuto del messaggio, era perdere il senso del mistero che non può mancare nel colloquio tra il finito e l’Infinito. ParlarGli poi usando il linguaggio del quotidiano  era svilire il colloquio con Dio e ridurlo a livello del colloquio con il proprio vicino di casa. Perdendo il modo di stare in chiesa che veniva dalla tradizione, si perdeva un altro elemento che faceva l’originalità del proprio paese.

                       Un mattone alla volta si demolì quello che per secoli era stato il valore del paese. Un mattone alla volta, senza far caso al fatto che di mattone in mattone si stava demolendo la casa.

                        Si è finito così per vergognarsi di aver subito il fascino d’una poesia di paese che non si riconosceva più. “Il piccolo mondo antico”, dove piccolo stava per bello, a misura di uomo, venne ad assumere  una luce diversa, piccolo divenne sinonimo di soffocante, le storie del paese soltanto “piccole cose di pessimo gusto”.

                       Appunto! Non solo “irrimediabilmente attratti dalla pianura”, come titola Cristina Barazzutti, i Carnici sentono proprio il bisogno di allontanarsi dalla Carnia, di rifiutare la sua storia. Per questo sarebbe necessario proprio ripartire rimettendo in luce gli aspetti positivi di questa storia, per andare orgogliosi, come ha fatto Linussio, di essere carnici, per far capire anche alle nuove generazioni che il sacrificio in più che comporta il vivere in montagna è un sacrificio che ripaga, perché insegna ad affrontare la vita con maggiore determinazione, forma un carattere più “duro”. Non nel significato rilevato da Heady, ma in quello di “callido et sagaci ingenio - d’ingegno scaltro e perspicace”  che già faceva rilevare Quintiliano Ermacora. Duro, per una più determinata convinzione nei propri mezzi, nella propria capacità di affrontare la vita.

                       A chiusura della  storia della Carnia si potrebbe dire provocatoriamente che non c’è stata nessuna storia  perché non è mai esistita la Carnia. Non è mai esistita quella che lo storico ed amico Furio Bianco chiama “Comunità di Carnia”. Sono esistiti i paesi. Autonomi. Volontariamente legati tra loro in aggregazioni di vallata: i Quartieri. Se dalla storia si vuole imparare qualcosa che possa servire per il futuro, si deve ripartire da questo fatto, si deve  imparare a ripartire dai paesi. Solo dando un senso e un valore al vivere nei singoli paesi, si potranno creare le condizioni perché la Carnia diventi terra di elezione, un luogo nel quale si sceglie di continuare a vivere o di tornare a vivere.

                       Ma se l’abbandono dei paesi è derivato soprattutto dall’abbandono delle donne, è necessario ripartire da loro.    Fortunatamente l’occupazione femminile nelle fabbriche è molto diffusa. Ma non basta. È necessario ricreare le condizioni perché i paesi siano vivibili soprattutto dalle donne, nel ruolo di madri.

                       Il richiamo a tornare potrebbe venire dai paesi-nido, cioè da paesi nei quali si sono trovate soluzioni ideali sia dal punto di vista organizzativo che economico per l’assistenza all’infanzia, dall’asilo nido nella forma delle Tagesmutter, alle scuole elementari flessibili.

                       I terreni incolti, non più lavorati dalle donne,  che, oltre a non portare degli utili, ora deturpano il paesaggio, possono tornare al ruolo storico di beni collettivi, utilizzati  in forme consorziate, con ricadute vantaggiose per i residenti. In un ambiente bello da vedere, in paesi rianimati dall’empatia prima ancora che dai servizi, per questo diventati “comunità di paese”, sta la chiave per superare la crisi, per arrestare la frana demografica.

                       E non è detto che non si possa finalmente anche imparare a vendere questa bellezza naturale per fare turismo, una attività per la quale tuttavia è necessario cambi alla radice l’atteggiamento dei Carnici verso i “foresti”. Nei paesi comuni-serrati della storia si guardava con ostilità e si cercava di penalizzare ogni nuovo arrivato.            Sembra quasi che questo atteggiamento abbia lasciato traccia sino ai giorni nostri, e non è certo compatibile con una cultura che dovrebbe favorire lo sviluppo turistico.

                       Anche su questo versante sarebbe necessario un cambiamento radicale per introdurre, a partire dalla scuola, quello spirito d’accoglienza diffuso nella popolazione, che fa d’un territorio un luogo ideale per la vacanza. Occorre uno spirito nuovo che, messo in rete attraverso un sistema di Alberghi diffusi sull’idea del poeta Leo Zanier, o di B&B, la moderna versione degli affittacamere a cui pensava Enzo Moro, l’ideatore del polo turistico della Zoncolan, cambierebbe, anche per i residenti, il clima sociale e la vivibilità del territorio.

                       Ma con queste ultime parole si deborda dalla storia nella politica. Non resta che chiudere con l’auspicio che sia proprio la politica a individuare le modalità attraverso le  quali il domani della storia della Carnia, si caratterizzi per un modello economico e sociale che aiuti ad apprezzare il fascino del vivere in montagna, creando le condizioni perché si torni ad amare la Carnia.