venerdì 3 maggio 2024

Carnia in crisi.

 Nella nuova edizione della mia STORIA DELLA CARNIA ho voluto inserire un capitolo completamente nuovo intitolato Carnia in Crisi che qui  trascrivo per i miei lettori.

             Facendo mia la battuta di Giorgio Ferigo con la quale si chiude il capitolo  precedente, nella prima edizione,  avevo da un lato sottolineato il male della Carnia,  in crisi perché  travolta dalla frana demografica, dall’altro, avevo fatto emergere una sorta di sconforto nella constatazione che il male è incurabile, il movimento della frana inarrestabile.

            Questa conclusione è in evidente  contrasto  con il proposito che mi ero posto di scrivere la storia della Carnia, pensando che potesse fare da “magistra vitae”, che vi si potessero cogliere utili suggerimenti per superare la crisi in atto, per avere qualche indicazione su come ritrovare una via d’uscita.

                       Alla luce di questa considerazione, in questa riedizione ho sentito la necessità  di riprendere alcune  osservazioni, a volte già accennate nei capitoli precedenti,  per un riflessione complessiva sulla crisi. Sia sulle cause che sulle soluzioni. Senza la pretesa di fornire  una ricetta, ma limitandomi a  fornire degli spunti, a volte delle  provocazioni, per rilanciare il dibattito sul tema.

                       Il fenomeno dello spopolamento, si è già visto, è stato studiato da Giovanni Pittoni assieme a Michele Gortani, addirittura già nel 1932, quasi un secolo fa. Un assestamento naturale era persino necessario, perché c’era stato un eccessivo aumento della popolazione, rispetto alle risorse di cui dispone il territorio. Ma Pittoni, che pur rilevava questo squilibrio, metteva in guardia perché il segnale doveva già preoccupare, perché, a suo avviso, avrebbe potuto costituire  l’avvio di un fenomeno poi inarrestabile. Sul principio di Macchiavelli per cui gli argini si devono costruire prima che arrivi la piena, si chiedeva subito, assieme a Gortani, quali potessero essere le cause e quindi quali i possibili rimedi per un fenomeno che riguarda la Carnia, ma che interessa tutta la montagna.

                       “Causa fondamentale dello spopolamento nella montagna friulana”, scrive Pittoni, “è il disagio economico. La nostra regione di montagna non dà, e non può dare il necessario alla vita se non a una parte dei suoi abitanti”. Il rimedio per lui sta in un più razionale utilizzo del territorio, in un aumento della produttività, in aumento quindi del reddito pro capite.

                       Anche alla fine del Novecento si è continuato ad affrontare il problema dal punto di vista economico, e sotto questo profilo in qualche modo si sono anche trovate delle soluzioni, se, come ho  già    accennato, si riscontra addirittura un fenomeno di pendolarismo alla rovescia. Da una recente indagine è emerso infatti che sono quasi mille i posti di lavoro in Carnia occupati da persone che quotidianamente salgono dalla pianura a lavorare in montagna.

                       Questo dimostra che, risolto il disagio economico, il problema persiste e per questo presenta caratteri di maggiore gravità. Qualcuno ha dato la colpa all’attrazione esercitata dai territori della pianura, nei quali non si devono sopportare i disagi legati all’orografia montana. Ma, per me, c’è di più, c’è all’origine  una forma di “rifiuto” proprio della Carnia che si è venuta formando nella storia. Si è finiti a volgere in negativo quello che, nella storia, era stato l’orgoglio di sentirsi carnici.

                       Paradossalmente, quello che era stato il sentimento d’amore per il proprio paese che aveva indotto per secoli generazioni di Carnici a emigrare portando in paese i frutti del  peregrinare come “kramârs” e poi della abilità nei mestieri pesanti del muratore o del boscaiolo, è diventato un atteggiamento di rigetto. L’amore si è convertito nel suo opposto: è diventato odio.

                       Da quando e perché? Domande non facili, per le quali si possono ricercare risposte in ambiti diversi. Non ultimo, tuttavia, anche in quello della storia.

                       Nel capitolo precedente si è detto che la storia contemporanea della Carnia secondo alcuni studiosi si può far partire  dalla istituzione della Regione a Statuto speciale nel 1963, per altri dal terremoto del 1976. Ma, in più, ritengo si debba prendere in considerazione anche la data  del  1960, come propone l’antropologo  Patrick Heady.

                       Non è una data alla quale si possa collegare qualche avvenimento scatenante, ma è negli anni attorno a quella data che la Carnia, a suo avviso, avrebbe subito una radicale trasformazione dal punto di visto sociologico e addirittura antropologico.

                       È questa la conclusione a cui è arrivato con la sua tesi di dottorato al Dipartimento di Antropologia Sociale della London School of Economics, elaborata dopo una serie di soggiorni in Carnia tra il 1989 e il 1994 e pubblicata a cura del Coordinamento Circoli Culturali della Carnia con il significativo titolo di “Il Popolo duro”

              L’idea che si è fatto Heady del popolo carnico è quella di un popolo “duro”  che negli anni sessanta del Novecento “sta vivendo una fase di profonda trasformazione caratterizzata dal fatto che  invidia ed egoismo assieme denotano uno stato di ostile e avida competizione che minaccia di diffondersi nelle vita sociale”.

              Molti, commentando la prima edizione, ove già avevo riportato questa considerazione, hanno tenuto a dirmi che con questa citazione avevo in qualche modo colto veramente  l’essenza della “carnicità”. Per questo, alla ricerca di suggerimenti per il presente, in questo capitolo della riedizione,  mi sono  provato a rileggere  la storia della Carnia anche  alla luce di questa intuizione di Heady.

              In sintesi la sua teoria é che la vita dura della montagna ha fatto del popolo carnico un popolo “duro”, perché la difficoltà nel garantire la sopravvivenza ha sviluppato il diffondersi dell’egoismo e  dell’invidia. La  necessità di proteggersi dall’invidia ha portato poi gli individui a chiudersi.

 

                          Perché “un uomo è “dûr” se resiste alle critiche e all’appello dei sentimenti concentrandosi su se stesso e sulla propria famiglia, così diviene “sierât” nei rapporti interpersonali.

 

                           Invece che fare dell’invidia  un motore di sviluppo, lo stimolo a fare meglio degli altri, il sentimento si è sviluppato  in negativo, cioè come sforzo per impedire agli altri “di diventare migliore di me”. L’invidia è diventata così la capacità dell’invidioso di fare del male o comunque di impedire di fare qualcosa,  di “striâ”, di gettare il malocchio.

                          Alcune persone vengono individuate come particolarmente capaci di influire negativamente sulla vita degli altri, di fare del male e vengono segnalate come streghe. L’incrociarsi di questa attribuzione del potere di “striâ” da una famiglia all’altra, determina un’atmosfera sociale soffocante ed  invivibile  dalla quale si cerca di liberarsi abbandonando il paese.

                          In qualche modo anche la Chiesa locale asseconda la teoria e le pratiche religiose diventano pratiche della superstizione contro le streghe. L’ulivo, la cera benedetta, l’acqua santa diventano amuleti da utilizzarsi per difendersi dall’invidia.

                          Nella edizione precedente ho riportato questa analisi di Heady, ricordando la figura di Linussio, quasi a dire che,  invece, chi riesce a sfondare la cappa dell’invidia, nello slancio finisce per diventare un fenomeno di intraprendenza.

                            Ma se questa interpretazione può spiegare il fenomeno dei tanti emigranti carnici che si sono affermati all’estero, allo stesso tempo può aiutarci, per converso, a capire il fenomeno della fuga in atto.

                         

                          Rileggendo la storia della Carnia alla luce delle sue considerazioni antropologiche si possono individuare tre fasi distinte.

                           La prima è quella dei tanti secoli nei quali, abbandonata dai Patriarchi prima e da Venezia poi, la Carnia si è venuta organizzando in autonomia.  La seconda è  quella dei tentativi fatti prima con l’Austria e poi con l’Italia di adattarsi al nuovo ordine imposto da Napoleone  e riconfermato dagli Asburgo. La terza è quella che si sviluppa nel secondo dopoguerra, con la presa d’atto che la convivenza in Carnia è impossibile e che è quindi preferibile abbandonare il territorio.

                                   Forse a partire già con i Longobardi e comunque poi con i Patriarchi e Venezia, la vita sociale della Carnia si era organizzata avendo come punto di riferimento i paesi. La viabilità era di norma difficoltosa, i collegamenti precari, e per questo i paesi, facendo di necessità virtù,  si erano organizzati come organismi autonomi e autosufficienti. 

                       Se, come ritiene Heady, invidia ed egoismo sono gli elementi connaturali del carattere dei Carnici, la comunione dei beni che caratterizzava i “Communs”,  i paesi-comuni in qualche modo faceva sì che gli effetti negativi del carattere si annullassero, o, al contrario, si assommassero, per diventare il campanilismo che caratterizzava il confronto tra i paesi. La rotazione annuale delle cariche impediva il prevalere di qualcuno sugli altri. Il regime comunista della proprietà eliminava i confini motivo di attrito. Il conflitto generato dal binomio invidia ed egoismo, assorbito all’interno della comunità, si trasferiva  a livello del confronto tra paesi.

                                   Con i decreti di Napoleone che eliminò le Vicinie, ripresi poi dall’Austria con la messa in vendita dei beni comuni e la introduzione della proprietà privata  nei paesi, si ottenne il risultato di introdurre  all’interno del paese i confini che prima erano tra paesi, introducendo i conseguenti conflitti.

                       Nacque una Carnia diversa con i paesi diventati in breve  un groviglio di tensioni e di conflitti. Caratterizzati da questa conflittualità interna, i paesi affrontarono le due guerre mondiali che esasperarono i contrasti. Nella prima si divisero tra chi fuggì dopo Caporetto e chi invece decise di restare. Ma il rientro avvenne in un clima di accuse su che cosa aveva  rubato chi era rimasto in paese, e si arrivò ad accusare i paesani anche dei danni provocati dall’esercito occupante.

                       Nella seconda guerra mondiale quella che viene enfatizzata come l’estate di libertà è stata in effetti l’estate delle vendette personali: bastava scegliere a chi si voleva denunciare qualcuno accusandolo di qualcosa. A secondo dei casi, scegliendo tra tedeschi e partigiani. Non per nulla i morti tra i civili di questa guerra locale, sono stati più numerosi dei morti in armi.

                                   Uscì dalla guerra una società civile profondamente segnata dalla guerra. Ma, malgrado tutto, i paesi mantenevano la loro vitalità interna. A tenerli assieme c’era ancora l’economia di paese. L’attività, comune a tutte le famiglie, era quella dell’allevamento del bestiame. La latteria era per tutti il punto di riferimento e di incontro.

                       E c’era anche qualcosa in più che andava oltre all’economia e che veniva dalla storia. È vero che per colpa di Napoleone i paesi avevano  perso l’autonomia di cui avevano goduto precedentemente, ma fra le case si sentiva ancora il fascino della identità di paese.

                       Lo si lasciava provvisoriamente per necessità, perché così voleva il destino. “Perché è naturale sia così”. Ma  lo si lasciava con rimpianto. Lo si pensava con nostalgia, lo si ritrovava a Natale con gioia.

                       È questo fascino che viene dalla storia, questo sentire il paese come valore che fa ancora da collante. Ci sono i conflitti tra persone, ma passano in secondo piano quando ci si deve riconoscere nella identità di paese. Non c’è più la “Vicinia” con il Meriga, ma c’è la latteria che ha come soci tutte le famiglie, con il Presidente che viene eletto ogni anno nell’assemblea che è di fatto assemblea di paese, e c’è la Società Operaia. C’è la chiesa con le sue feste, che hanno sempre meno un significato religioso, ma che vengono sentite come manifestazioni della identità del paese, ci sono le osterie, come centri sociali di aggregazione..

                       Negli anni sessanta del Novecento invece c’è la svolta, la rottura. Per qualche motivo si rompe il collante e viene a galla la società  che stupisce Patrick nella quale emergono l’egoismo e l’invidia. I pesi diventano invivibili perché la vita della comunità si trasforma in un intrico di conflitti, per ragioni economiche ma anche semplicemente per questioni di principio.

                          Egli ha voluto vivere del tempo  in Carnia per studiare la trasformazione, io  ho avuto modo di vivere da ragazzo la Carnia durante quella che lui considera la fase del cambiamento. La sua riflessione mi consente  di spostare sul piano generale anche le considerazioni legate alla mia vicenda personale.

                       Come rileva Heady, “invidia e egoismo si associano a creare uno stato di ostile e avida competizione che minaccia di diffondersi nella vita sociale.” Ne ho avuto la prova anche io quando, non ancora ventenne, al fine di mediare, come estraneo alle  “beghe di paese”, sono stato eletto Presidente della latteria in una assemblea assistita dai carabinieri a rappresentare il clima che si era creato.

                       Anche io poi ho avuto modo di riscontrare, soprattutto nella generazione dei nonni, il racconto d’un paese ammorbato dalla presenza di dannati e streghe e quindi del clima di difesa che istintivamente gli individui sentivano di dover erigere per proteggersi dal “potere” dell’invidia.

                        È stata questa sensazione dell’atmosfera mefitica che si respirava in paese, a fare da incentivo per abbandonare il paese, a favorire favore l’emigrazione di massa?

                       Certamente non solo! Ma forse anche! Si sono cercate le spiegazioni dal punto di vista economico e sociale, ma forse ci si è dimenticati di esaminare questo “anche” e quindi l’aspetto antropologico suggerito da Heady.

                        Nella sua interpretazione, il binomio negativo invidia-egoismo che era stato in qualche modo superato  nel valore che si attribuiva alla idea di paese,  pare quasi sia esploso e abbia creato una repulsione, una sorta di ostilità e di odio verso tutto ciò che rappresentava e ricordava il paese.

                        Heady assume il 1960 come data del verificarsi del fenomeno. La data ha evidentemente un valore emblematico perché i cambiamenti sociali maturano nel tempo, a meno che non sia legata a qualche episodio scatenante. Non c’è nulla infatti nella storia della Carnia che possa essere associato a quella data, a meno che non la si assuma come data dell’arrivo del boom economico.

                       Comunque  anch’io concordo con lui nell’affermazione che nei decenni a cavallo di quella data la Carnia ha subito un cambiamento radicale, si sono “determinati mutamenti radicali della società che hanno influito sul senso dell’identità locale dei singoli individui”.

                       Non i tutti i paesi allo stesso modo.

                       Paradossalmente il cambiamento ha fatto seguito al modificarsi delle condizioni di isolamento, con la realizzazione di una viabilità che “portava l’automobile” anche nei paesi più emarginati. La strada, che avrebbe dovuto  migliorare le condizioni dei residenti, è diventata il canale attraverso il quale si è introdotta  la “modernità”, intesa come un altro modo di vivere, con altri valori, che non erano quelli della tradizione del paese, anzi erano l’opposto.

                       Per questo si arrivò a rinunciare al  paese, prima come rifiuto del modo di vivere, poi come abbandono definitivo per trasferirsi altrove. Significativa del cambiamento in atto è stata la foga, ricordata anche nel capitolo precedente, con la quale in molti si sono voluti disfare della storia della propria famiglia, rappresentata dal mobilio della casa.

                       Si cambiano i mobili  regalando quelli di valore carichi di storia, realizzati con il legno dei noci del luogo, da artigiani del luogo, in cambio di quelli di formica colorata. La foga a sconfessare il passato, monta come la nebbia nelle giornate di pioggia che sale e avvolge le case, e dai mobili si passa al paese.

                       Quello che prima era stato il “l’orgoglio di paese”, le tradizioni, le feste, la socialità dell’osteria, diventano elementi negativi da ripudiare. Una storia di paese fondata su legami di profonda empatia  che stupisce Heady, diventa una stupida guerra per cose da nulla che diventano fatti “di principio”. Egli scopre tracce di questa storica e profonda empatia che faceva da collante nei paesi, persino in alcune modalità della parlata locale. Ad esempio nel salutare un nuovo arrivato con una battuta che potrebbe sembrare senza senso: “Sestu rivât- sei arrivato?” invece del buon giorno. Una battuta fuori della logica, ma che esprimeva il piacere con cui si era atteso l’incontro, e forse anche l’apprensione, visti i pericoli che si correvano spostandosi sui sentieri precari che univano i borghi.

                       Ma in analogia con ciò che avviene  in una famiglia  che  si sfascia e vede trasformarsi  i rapporti di amore in sentimenti di odio, così nel paese che si è rotto, l’empatia, il sapersi mettere nei panni degli altri, invece che amicale condivisione, diventa intollerabile invadenza, pericolosa ingerenza. Secondo Heady, la diffidenza arriva al punto di ritenere che ci siano negli altri capacità di trasmettere influenze negative, di “striâ”, di gettare il malocchio.

                          Egli cerca una spiegazione nelle teorie antropologiche. Ma forse la spiegazione è più semplice, sta nel fatto che il paese si è sciolto, come direbbe Zygmunt Bauman, è diventato “liquido” perché si è liquefatto il sistema dei rapporti, è cambiato il modo di vivere il paese, perché è cambiato il modo di essere delle famiglie.

                           Un cambiamento che io ho vissuto e di cui posso dare testimonianza, continuando a spostare sul piano generale le considerazioni legate alla mia esperienza personale.

                       Sulle orme di mio padre, nel 1960 mio fratello ha preso a fare l’emigrante. Io ho preferito cercarmi un lavoro in Patria.  Ma tra il modo di emigrare di mio padre e quello di mio fratello  (e di tutta la nuova generazione di emigranti),  c’era un abisso.

                       Prima gli anziani vivevano all’estero nella nostalgia del ritorno, nel richiamo di un paese sentito come un valore, addirittura un ideale. Negli anni sessanta del Novecento si prese a emigrare come fuga dal paese. Abbandono. Rifiuto di  un ambiente nel quale non si trovava più nulla di apprezzabile che giustificasse il mantenimento di un rapporto, men che meno che alimentasse sentimenti di nostalgia.

                        Per questo gli anni sessanta del secolo scorso sono stati anni cruciali per la storia dei paesi. Il cambio radicale nel modo di emigrare ha messo in moto la frana demografica.

                       Anche nell’immediato secondo dopoguerra il fatto che gli uomini dovessero emigrare, che le donne dovessero gestire l’azienda agricola, che i figli dovessero vedere il padre un mese all’anno, come si è detto, era scontato, in qualche modo naturale. La nuova generazione degli emigranti, quella dei nati negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, ha invece radicalmente modificato il rapporto con il territorio, proprio perché ha sentito l’assurdità del modo di vivere ritenuto normale sulla base della tradizione.

                       Un’assurdità che emerge dal confronto con i modi di vivere  e di concepire la vita con cui  l’emigrante viene in contatto all’estero.    Si abbandona quindi il paese. Definitivamente. Oppure investendo nella casa che, diventando casa per ferie, diventa elemento per confermare il proprio successo ottenuto fuori dal paese e malgrado l’invidia del paese.

                       Si trattava comunque ancora di episodi, non in grado di modificare la realtà del paese.       Solo quando ha deciso di partire anche mia madre, ho capito che qualcosa stava cambiando in modo radicale e definitivo. La sua decisione era una spia della rivoluzione in atto, messa in moto dalla generazione di donne nate a cavallo della guerra e giunte alla maggiore età appunto negli anni sessanta, che aveva contagiato anche lei, sebbene d’un’altra generazione.

                       A cambiare la Carnia è stata la decisione di queste giovani donne  di rifiutare il ruolo imposto dalla tradizione plurisecolare di “angelo del focolare”, che nella fattispecie e all’atto pratico significava essere l’angelo della stalla, con la gerla al posto delle ali.

                       Meglio un lavoro  anche a servizio, ma fuori dal paese, fuori dalla stalla, finendo  così quasi  a identificare in negativo  il paese con la stalla. C’è una immagine emblematica che si ripete negli scatti di molti fotografi del tempo, quella della processione di donne che portavano la gerla carica di letame. Una scena a cui ho assistito più volte anch’io. Arrivate nel prato da coltivare si piegavano in avanti e con un gesto atletico scaricavano il letame. In quegli anni, con lo stesso gesto hanno finalmente deciso di scaricare e abbandonare sul terreno anche la gerla!

                       C’è stato un tentativo di intervenire con il rimedio delle stalle sociali che avrebbero tolto alle donne l’onere di essere in servizio nella stalla, mattino e sera, per  trecentosessantacinque giorni all’anno.          Ma l’esperimento è subito fallito, perché le rivoluzioni non si fermano a metà, il rifiuto delle donne a restare nel solco della tradizione plurisecolare, si è consolidato e diffuso a macchia d’olio e in breve tempo ha caratterizzato tutta la Carnia.

                       La volontà di abbandonare il paese è stata una reazione al  clima di cui parla Heady, all’asfissiante controllo sociale che caratterizzava i paesi nei quali l’empatia si era trasformata in  invidia, la condivisione in malanimo?    

                       Oppure è derivata dalla semplice constatazione che non aveva senso una vita di sacrifici troppo grandi, ripagata da  guadagni troppo miseri? Forse da entrambe le motivazioni. Ma il saperlo è secondario rispetto alla constatazione  che dalla rivoluzione femminile ha preso  l’abbrivio la frana demografica.

                       Che questa sia stata la rivoluzione che ha cambiato la storia della Carnia appare evidente se si considera il ruolo che la donna aveva nella società carnica del momento. Ai tempi delle Vicinie si lavorava assieme nei “beni comuni” e i mariti “non disdegnavano l’agricoltura” come scrive Quintiliano Ermacora, e quindi durante l’estate aiutavano le mogli. Poi, dopo Napoleone, da un lato ci fu il passaggio alla proprietà privata, dall’altro ci fu il cambio nel sistema dell’emigrazione. Non più kramârs ma muratori, i mariti furono costretti a emigrare l’estate.

                       Le donne si trovarono così ad avere la completa responsabilità della gestione dell’azienda agricola familiare. Non a caso in Carnia la moglie per il marito non è “la mia signora” ma la “mȇ paròne” la mia padrona. Titolare di fatto se non di diritto della azienda-famiglia.

                       Si suole dire che “a ten su trê cjantons” sorregge tre angoli della casa. È naturale che se cedono d’un tratto tre angoli, cede la casa e, di casa in casa, cedettero gli angoli su cui si reggeva il paese.

                        Tornando invece allo studio di Heady, mi pare di dover convenire che si è verificato anche un fenomeno di dissoluzione dei paesi sotto il profilo dei valori che li aveva caratterizzati  nella storia.  Il paese, con il cimitero monumento alla sua storia, ponte tra passato e presente, era la terra dei padri, era la patria dove alla fine  ognuno avrebbe voluto rientrare per garantire la continuità “di generazione in generazione”.

                       La lingua viene definita l’anima di un popolo.  Se questo è vero, per la Carnia si dovrebbe dire che ogni paese si era costituito come popolo a sé. Paesi confinanti, come s’è visto, avevano sviluppato una lingua diversa, nelle cadenze e anche in certi termini. Una originalità che era  diventata orgoglio di paese, il sentimento di superiorità con il quale si faceva lo sfottò della lingua degli altri.

                       Ma poi arrivò il maestro e nella sua casa si parlava italiano, arrivarono i cultori della lingua friulana a dire che il friulano è un altro, quello della koinè. Ci si doveva vergognare della lingua del paese, con le sue peculiari cadenze, con la sua originale musicalità.       Divenne elemento di vergogna quello che era stato sentimento d’orgoglio!

                       La chiesa, prima ancora che il luogo del culto e  della religione, era il monumento nel quale si identificava il paese. Nella costruzione che era costata tanti sacrifici, perché la si era voluta più bella o più grande di quella dei paesi confinanti, ma anche nel come la si viveva nel cerimoniale. Sulla stessa base, ogni paese aveva sviluppato persino una variante, “ghenghe”, diversa per i canti liturgici. Ma arrivò il prete da fuori e invece di adattarsi al paese, obbligò il paese a rinunciare alla sue  tradizioni. Nessuno cantò più la “messa vecchia” nella variante del paese. Si introdusse l’obbligo del gregoriano, si rinunciò al latino per l’italiano o addirittura per il friulano.

                       Le parole del latino erano come quelle delle formule magiche, incomprensibili, ma cariche di significati simbolici. Pregare in una lingua che non si comprendeva era come usare un linguaggio che solo Dio poteva capire. ParlarGli conoscendo il contenuto del messaggio, era perdere il senso del mistero che non può mancare nel colloquio tra il finito e l’Infinito. ParlarGli poi usando il linguaggio del quotidiano  era svilire il colloquio con Dio e ridurlo a livello del colloquio con il proprio vicino di casa. Perdendo il modo di stare in chiesa che veniva dalla tradizione, si perdeva un altro elemento che faceva l’originalità del proprio paese.

                       Un mattone alla volta si demolì quello che per secoli era stato il valore del paese. Un mattone alla volta, senza far caso al fatto che di mattone in mattone si stava demolendo la casa.

                        Si è finito così per vergognarsi di aver subito il fascino d’una poesia di paese che non si riconosceva più. “Il piccolo mondo antico”, dove piccolo stava per bello, a misura di uomo, venne ad assumere  una luce diversa, piccolo divenne sinonimo di soffocante, le storie del paese soltanto “piccole cose di pessimo gusto”.

                       Appunto! Non solo “irrimediabilmente attratti dalla pianura”, come titola Cristina Barazzutti, i Carnici sentono proprio il bisogno di allontanarsi dalla Carnia, di rifiutare la sua storia. Per questo sarebbe necessario proprio ripartire rimettendo in luce gli aspetti positivi di questa storia, per andare orgogliosi, come ha fatto Linussio, di essere carnici, per far capire anche alle nuove generazioni che il sacrificio in più che comporta il vivere in montagna è un sacrificio che ripaga, perché insegna ad affrontare la vita con maggiore determinazione, forma un carattere più “duro”. Non nel significato rilevato da Heady, ma in quello di “callido et sagaci ingenio - d’ingegno scaltro e perspicace”  che già faceva rilevare Quintiliano Ermacora. Duro, per una più determinata convinzione nei propri mezzi, nella propria capacità di affrontare la vita.

                       A chiusura della  storia della Carnia si potrebbe dire provocatoriamente che non c’è stata nessuna storia  perché non è mai esistita la Carnia. Non è mai esistita quella che lo storico ed amico Furio Bianco chiama “Comunità di Carnia”. Sono esistiti i paesi. Autonomi. Volontariamente legati tra loro in aggregazioni di vallata: i Quartieri. Se dalla storia si vuole imparare qualcosa che possa servire per il futuro, si deve ripartire da questo fatto, si deve  imparare a ripartire dai paesi. Solo dando un senso e un valore al vivere nei singoli paesi, si potranno creare le condizioni perché la Carnia diventi terra di elezione, un luogo nel quale si sceglie di continuare a vivere o di tornare a vivere.

                       Ma se l’abbandono dei paesi è derivato soprattutto dall’abbandono delle donne, è necessario ripartire da loro.    Fortunatamente l’occupazione femminile nelle fabbriche è molto diffusa. Ma non basta. È necessario ricreare le condizioni perché i paesi siano vivibili soprattutto dalle donne, nel ruolo di madri.

                       Il richiamo a tornare potrebbe venire dai paesi-nido, cioè da paesi nei quali si sono trovate soluzioni ideali sia dal punto di vista organizzativo che economico per l’assistenza all’infanzia, dall’asilo nido nella forma delle Tagesmutter, alle scuole elementari flessibili.

                       I terreni incolti, non più lavorati dalle donne,  che, oltre a non portare degli utili, ora deturpano il paesaggio, possono tornare al ruolo storico di beni collettivi, utilizzati  in forme consorziate, con ricadute vantaggiose per i residenti. In un ambiente bello da vedere, in paesi rianimati dall’empatia prima ancora che dai servizi, per questo diventati “comunità di paese”, sta la chiave per superare la crisi, per arrestare la frana demografica.

                       E non è detto che non si possa finalmente anche imparare a vendere questa bellezza naturale per fare turismo, una attività per la quale tuttavia è necessario cambi alla radice l’atteggiamento dei Carnici verso i “foresti”. Nei paesi comuni-serrati della storia si guardava con ostilità e si cercava di penalizzare ogni nuovo arrivato.            Sembra quasi che questo atteggiamento abbia lasciato traccia sino ai giorni nostri, e non è certo compatibile con una cultura che dovrebbe favorire lo sviluppo turistico.

                       Anche su questo versante sarebbe necessario un cambiamento radicale per introdurre, a partire dalla scuola, quello spirito d’accoglienza diffuso nella popolazione, che fa d’un territorio un luogo ideale per la vacanza. Occorre uno spirito nuovo che, messo in rete attraverso un sistema di Alberghi diffusi sull’idea del poeta Leo Zanier, o di B&B, la moderna versione degli affittacamere a cui pensava Enzo Moro, l’ideatore del polo turistico della Zoncolan, cambierebbe, anche per i residenti, il clima sociale e la vivibilità del territorio.

                       Ma con queste ultime parole si deborda dalla storia nella politica. Non resta che chiudere con l’auspicio che sia proprio la politica a individuare le modalità attraverso le  quali il domani della storia della Carnia, si caratterizzi per un modello economico e sociale che aiuti ad apprezzare il fascino del vivere in montagna, creando le condizioni perché si torni ad amare la Carnia.

 

1 commento:

OLga ha detto...

Post molto interesante.Da friulana conosco i problemi.Mandi.