sabato 30 giugno 2007

La cultura del vivere in montagna.

"Con l’energia sottratta alla montagna hanno illuminato le città, ed hanno fatto in modo che, attratti da queste luci, le forze più vive e più giovani, siano fuggite dalla montagna”.
Oggi lo scenario può cambiare: si può cominciare a pensare alla montagna non come a un luogo di emarginazione da abbandonare appena possibile, ma ad un luogo dove anche un giovane che non vuole rinunciare alle opportunità che gli derivano dal vivere nel terzo millennio, può pensare di progettare il proprio futuro.
Lavorare ad un nuovo progetto montagna signfica lavorare, perchè questo avvenga in maniera sistematica: creare le condizioni perchè vivere in montagna possa essere non una maledizione ma una scelta per chi vi è nato e per chi puo pensare di trovarvi un modo di vivere e di realizzarsi più completo rispetto a chi vive in città. Se questo è l’obiettivo, è molto secondario, e per certi versi fuorviante discutere di questioni ordinamentali, di riordino di comunità e comuni, di autonomia.
Più importante sarebbe forse chiedersi come mai l’uomo della Carnia, fuori dal suo contesto diventa dinamico, propositivo, tendenzialmente imprenditore, nel suo contesto è portato a delegare agli altri la soluzione dei propri problemi, ad accontentarsi, preferisce vedersi come dipendente che come imprenditore.
Interessante sarebbe chiedersi se la scuola fa qualcosa per modificare queste condizioni culturali di base o se invece, gli insegnanti che vengono da fuori, sentendosi in qualche modo come relegati al confino, non favoriscano la cultura della fuga dalla montagna. Se la Chiesa stessa che per anni ha usato la montagna come luogo di punizione per i suoi preti, non abbia contribuito a trasmettere l’idea che la montagna è un luogo si “sofferenza e di dolore”.

mercoledì 27 giugno 2007

Le stagioni del contadino.

Da (Lo strano sogno - Editrice UniService - pag. 165)
I suoi ritmi erano quelli segnati dal rincorrersi dei giorni, dal mutare delle stagioni, dallo sviluppo della natura che impone l’ordine del lavoro del contadino. Erano i ritmi che avevano cadenzato la vita di sua madre, e prima di sua nonna, e prima ancora della nonna di sua nonna e di tutte le donne che avevano nei secoli lavorato sui quei prati, attraversato quei boschi, percorso quei sentieri.
Da sempre era venuto marzo a sciogliere le ultime nevi, e per sempre sarebbe venuto con lo stesso fondale, obbligando alla recita dell’identica scena.
Negli angoli meno soleggiati c’è ancora la neve, e sul sentiero la terra s’increspa gelata, intrisa di brina . Ma più avanti ove il tepore del sole di primavera ha sciolto la terra, il prato ha ripreso a muoversi nel primo brivido di vita. È scoppiato il bianco dei bucaneve sul terreno ancora sporco dei colori dell’autunno. E poi il giallo delle primule, mentre il prato è percorso dal verde brivido dell’erba, che spunta tenera emergendo dall’umore della terra. La quercia trattiene ancora le ultime foglie bruciate dal gelo dell’inverno, ma il sole ha disciolto la linfa che ora percorre la pianta con un fremito nuovo, e scoppiano le prime gemme.
Il contadino tuttavia è come un attore che non guarda al fondale del palcoscenico sul quale deve recitare, per lui tutto il fervore di vita del prato a marzo, è solo un prato che deve essere “rimondato”, pulito di nuovo.
Perchè non si rovini la falce e perchè il fieno possa essere raccolto pulito, è necessario passare con il rastrello tutti i prati per raccogliere tutte le foglie cadute dagli alberi, i rami secchi ed i sassi. È il primo lavoro. Quasi un passatempo per sgranchire il corpo, dopo l’inerzia dell’inverno.
A Pasqua la terra è pronta per essere smossa. Ove i pendii della montagna sono meno inclinati si sono ricavati i piccoli campi. La vanga premuta dal piede, si infila a fatica nella terra che s’è compattata sotto la neve. Il corpo s’inarca nello sforzo di sollevare la zolla che, rovesciata, viene disposta per accogliere il seme. A concimare la terra quindi una striscia di letame formata distribuendo con la forca i mucchi precedentemente realizzati, portando il letame con le gerle. Poi il seme: sullo strato di letame nero, più nero del solco, una fila di patate, bianche, tagliate a pezzetti.
Non troppo distanti per non perdere spazio, non troppo vicine per non sprecare il seme! Quasi un gioco per bambini…
“Ma distanti quanto? Vicine quanto?…”
Poi di nuovo con la vanga, un colpo dopo l’altro, a rovesciare la terra per coprire il seme.
Oppure no, per fare la rotazione, quest’anno è meglio il granoturco. La stessa lavorazione, ma il seme no.
Il granoturco si semina alla fine.
I semi di grano nel grembiule raccolto a mo’ di sacca. Con la sinistra ne cogli un pugno, che poi distribuisci. Due o tre alla volta, dietro al sarchiello, con il quale hai aperto la terra.
All’Ascensione l’erba e matura. Inizia il ritmo più intenso e pesante dei lavori d’estate.
Falciare! All’alba quando l’erba è ancora madida di rugiada. Così la falce scorre più sciolta e si fa meno fatica, dicono i vecchi! Ma s’alza presto il sole d’estate. Scende dal monte di fronte e fa brillare le gocce di rugiada sull’erba. E si svegliano con lui anche i tafani. Inebriati dall’odore della pelle, umida di sudore, danzano attorno impazziti per gettarsi all’improvviso come sparvieri a pungere ed a succhiare il sangue.
Per ore la stessa cadenza. Ruotando il corpo per imprimere più forza all’impatto della falce con l’erba. Rompendo il ritmo solo per rifare il filo con la cote. E tutto intorno, al sibilare delle falci, s’alterna lo stridio delle coti, che copre il canto di fondo dei grilli, l’improvvisazione del merlo, la monotona insistenza del cuculo.
Poi stendere al sole i solchi d’erba tagliata, formati dalla falce. Girare l’erba perché si secchi più in fretta, metterla in covoni a sera, perché la rugiada non la bagni. E il giorno dopo, ripetendo la medesima scena, su un’altra parte di prato, continuare con il secondo atto della lavorazione. Sciogliere i covoni al sole, e girare ancora una volta il fieno, ormai quasi secco. Dopo pranzo infine, quando il sole picchia più forte, raccoglierlo per portarlo nel fienile.
Due corde, distanti tra loro una trentina di centimetri, da stendere sul prato di traverso, ad angolo retto rispetto all’inclinazione del terreno. Anche questo è un lavoro per bambini! “Non così! Non vedi che sono troppo inclinate?” sgrida la mamma.
Sembra facile! Ma una bambina non può avere l’idea dell’angolo retto, rispetto alla pendenza del prato!
Raccogliere con il rastrello il fieno a “falde”. Comprimendolo contro le proprie gambe per farne delle specie di cuscini, da porre poi sulle corde, sovrapponendoli l’uno dopo l’altro. Cinque o sei, a seconda della distanza del prato dal fienile e della forza del portatore. Poi sotto il sole che picchia con rabbia, infilare la testa in una sorta di nido incavato al centro del fascio di fieno che scotta, sedersi, addossandosi il fascio alla schiena, e quindi, mentre qualcuno t’aiuta spingendo da dietro, issarlo, in bilico sulle spalle. Alzarsi a fatica, reggendo l’enorme pesante copricapo e prendere a camminare, riuscendo a vedere quel poco che serve per non incespicare seguendo il sentiero.
Andare, nel sudore che scioglie la testa, e il pulviscolo che s’appiccica al volto. Andare, per dieci, per venti, per trenta minuti, appena riuscendo a vedere, dove mettere il prossimo passo. Liberarsi infine del peso, nella bolgia infuocata del vecchio fienile, nell’angusto intramezzo, tra il fieno in catasta e il tetto dagli embrici che scottano, bruciati dal sole...
Sciogliere le corde in quell’afa che toglie il respiro, e scomporre il fascio del fieno, spargendolo sulla catasta. Calpestarlo e pigiarlo, perchè non occupi spazio di troppo, nella nube del pulviscolo che s’appiccica al corpo.
E alla sera c’è ancora qualcosa da fare. A San Giovanni nel campo, a rincalzare la terra sulle piante di granoturco appena spuntate. In silenzio, in un mare di lucciole che si muovono a scatti, avvolgendoti in una atmosfera magica ed irreale. Mentre le ombre della notte si fanno sempre più fitte e più luminosi i punti di luce impazziti, l’alito della terra fa vibrare le foglie, umide ancora nello sforzo per nascere.
E con le prime ombre che scendono dalle montagne s’affollano e addensano sui tuoi pensieri, altri pensieri, altre figure.
Sono le donne che da sempre, alle falde della montagna dalla quale si vede il mare, nelle notti di S.Giovanni nel turbinio delle lucciole hanno sentito il vuoto del finire...
E le ombre prendono a vivere di quei pensieri e ti assale la paura. La folla sembra che voglia travolgerti e senti il bisogno di fuggire, per nasconderti nella solitudine della casa, sbarrando la porta agli altri pensieri che vivono nella notte.
Poi il buio s’incrina, le lame rosse dell’aurora lo fendono e di nuovo il sole si sporge dalla Damarianna, la montagna di fronte. Ogni giorno un po’ più in alto, a scandire il passare del tempo con la sua scalata del monte. E viene alla fine l’autunno.
Finalmente l’erba non ricresce più! Finiscono gli impegni della fienagione. Ma ci sono ancora i raccolti da fare. A fine settembre ci cono le patate. La vanga riprende le zolle rivoltandole per mettere a nudo i grappoli dei tuberi. Man mano che arretri tra solco e solco si forma la striscia bianca delle patate ad asciugare al sole. Si devono raccogliere poi, scegliendo per il maiale quelle spezzate dalla vanga e quelle troppo piccole. (Altro lavoro per bambini!) Ma piccole quanto? E quanto grandi, perchè siano buone per gli uomini?
E cominci ad imparare che tutto è relativo. Dipende infatti dagli anni. Se è stata una buona annata le patate sono più grandi, se invece c’è stata troppo pioggia oppure troppo poca, le patate sono più piccole. Non esiste nella vita una misura certa, un calibro preciso, anche i bambini dovrebbero cominciare a capirlo...
Intanto il bosco si tinge dei colori dell’autunno. Dal basso, come se ogni giorno il pittore aggiungesse una riga nuova al suo disegno, il verde viene coperto dal giallo bruciato dei faggi e dal marrone delle querce, viene macchiato dal rosso dei ciliegi e dal bianco delle betulle.
Quando il nuovo colore ha raggiunto le vette siamo ormai alla festa dei morti: è l’ora del granoturco. Le piante sono già state troncate appena al di sopra della pannocchia. Le mucche vanno ghiotte dei gambi di granoturco ancora freschi, tagliati a pezzetti. Il campo con quei monconi a mezza altezza, sembra una testa rapata per punizione.
Fa tristezza percorrerlo, sfilando le pannocchie per buttarle nella gerla portata sulla schiena. Ti senti una ladra! Come è possibile che quelle piante abbiano faticato invano! Gli era già stata tolta la parte più alta, con il pennacchio del quale andavano fiere. Come soldati avevano sfidato i temporali estivi, il vento impetuoso e la grandine battente. Ora dopo aver perso l’elmo, erano costrette a lasciarsi strappare le armi…
Solo per la pannocchie quei gambi di granoturco erano diventati così alti: perchè meglio potessero cogliere i raggi dei sole. Ora invece, tutto si risolveva in un attimo, nel gesto brutale della mano che d’un colpo staccava quei frutti, per buttarli nel fondo d’una gerla.
A turno si riunivano poi le famiglie, attorno al mucchio di pannocchie deposto in un angolo della casa, per aiutarsi nel lavoro di ripulitura.
Con gesti secchi le donne aprono le foglie, senza badare all’imbarazzo del frutto che si vede messo a nudo, così all’improvviso, nell’ordinato disporsi dei chicchi, nelle file regolari che lo percorrono in tutta la lunghezza. Le foglie vengono quindi strappate e deposte in un mucchio, strame per le mucche. Le più sane e belle, a parte, per cambiare il fogliame del pagliericcio, che si usava come materasso.
La pannocchia nuda, con due o tre foglie soltanto in testa, (bianche perchè più interne, mai toccate dal sole) come una sposa agghindata per la sua festa, viene passata alla donna più esperta, incaricata dell’intreccio. Sovrapposte le une alle altre, attraverso le foglie intrecciate tra loro, le pannocchie vengono composte in un enorme grappolo, per essere poste a maturare facendo bella mostra di sé sulla linda di casa, nel tiepido sole d’autunno...
E il bosco cambia ancora. Con il grigio dei faggi ormai senza foglie, sembra spruzzato di nebbia per prepararsi al gelo dell’inverno. Cade allora la prima neve, lontano, sulle cime più alte, in grigie giornate di freddo, quando solo lo scricciolo trova il coraggio di muoversi tra i rovi. Poi la nevicata s’avvicina, come un velo bianco che viene steso lentamente dall’alto a coprire a poco a poco tutta la montagna. E infine arriva anche in paese!...
“Nevica!” Si dicono i bambini felici perchè coperta dalla neve la terra non sembra prestarsi ad altro che al gioco.
“Nevica!” Si dicono i grandi, dispiaciuti che quella coltre di neve cancellando ogni cosa impedisca loro di usare della propria terra, di ritrovare i propri sentieri.
“Nevica!” Ed ogni fiocco sembra voglia cancellare qualcosa. Si posano discreti come un bacio, prima sciogliendosi nella terra, quasi a cercare l’intimità…poi la natura che freme sorpresa a quell’incontro subdolo, lentamente, viene coperta ed annientata nella irreale distesa di bianco.
Nevica! E con la neve da sempre, allo stesso modo, si chiude il ritmo della stagione...
Nevica! E come sempre, marzo scioglierà l’ultima neve per un nuovo anno di lavoro...

domenica 24 giugno 2007

Un pezzo a piedi - Giovanna Nieddu


Un romanzo o un racconto è una costruzione artificiosa che un autore ha sviluppato con la sua fantasia, come una tela sulla quale trasferire il proprio pensiero. Farne una recensione significa guidare il lettore a filtrare i contenuti, attraverso la trama della tela. Nella poesia non c’è invece nessun artificio. Nella poesia l’autore è come in un confessionale senza grata, scrive proprio per mettere a nudo la sua anima. La poesia è tanto più riuscita, quanto più la parola ha perso ogni significazione per farsi suggestione ed emozione. La poesia non è una traduzione dei sentimenti in parole, perché il lettore possa risalire dalle parole ai sentimenti. La poesia diventa essa stessa sentimento e le parole si trasformano nel pentagramma che consente al lettore di far proprie le emozioni del poeta: musica senza parole.
Per questo è difficile, se non impossibile, recensire una raccolta di poesie. Non c’è nulla da recensire, perché non c’è traccia da svelare, sentiero su cui condurre il lettore. Il rapporto tra chi scrive e chi legge è immediato, direi quasi “a pelle”. Il poeta si mette a nudo, e nudo deve avvicinarsi il lettore, per sentire la vibrazione d’un anima che ha sentito il bisogno di rivelarsi, perché altri nel suo disvelarsi, trovi una traccia per ritrovarsi, per ritrovare il senso del proprio esistere.
Queste sono le considerazioni a cui sono stato portato leggendo la raccolta di poesie “Un pezzo a piedi” di Giovanna Nieddu, e su queste considerazioni, ovviamente, avrei dovuto fermarmi, rinunciare ad ogni commento.
Ma poi non ho potuto fare a meno di interpretare a mio modo, la “tela di vita” che affiora tra le “parole in bianco e nero” della Nieddu.
A partire dal titolo, ricavato da una delle poesie della raccolta e riferito alla battuta d’un extracomunitario (anche questi ormai nuovi cittadini della Carnia) che chiedendo il biglietto della corriera, per risparmiare, chiede soltanto una tratta, riservandosi di fare a piedi l’ultimo pezzo. Ma è il pezzo a piedi di mille storie della nostra emigrazione. Il pezzo a piedi che gli emigranti facevano scendendo dal paese per andare a “prendere la corriera di Tavoschi”, accompagnati dalla moglie che portava la valigia sulla gerla. E’ il pezzo a piedi che facevano rientrando con la valigia di cartone in spalla, ed il pensiero al paese che finalmente avrebbero rivisto. E’ il pezzo a piedi di Giovanna che emigra dalle montagne della Sardegna, per fare anche sua la mia Carnia. Emigrazione ed immigrazione come un vortice che può cancellare o rendere più vive le identità. Paura e speranza per i paesi di montagna.
Ma forse al di là delle intenzioni dell’autrice, in questo titolo, io ci ho letto la metafora del pezzo a piedi di ognuno di noi nella vita, come lei dice, “contando i passi che ci separano dal cielo”.
“Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”. Potrebbero essere queste parole di S.Agostino la chiave di lettura più profonda dei versi di Giovanna. L’inquietudine del finito alla ricerca d’un senso che può essere ritrovato solo in un Infinito irraggiungibile, in una vita che è “l’eterno respiro d’eterno”. Una inquietudine che costa sofferenza, che pesa perché si “paga caro il prezzo della consapevolezza”.
Ma accanto alla chiave di lettura esistenziale c’è quella di Giovanna che ha scoperto la Carnia, meglio di tanti carnici, perché ha scoperto la suggestione dei luoghi. “Vado per le montagne.. e il silenzio umido del sottobosco canta il canto della mia montagna. In Marcelie, (nei luoghi della mia infanzia, ai quali mi lega una “particolare attrazione” come scrivo in un mio romanzo) è arrivata lei dalla Sardegna, ed è riuscita a dar voce alla mia suggestione. “Cammino piano/ lascio che la vita/ mi scorra dentro all’anima/ prego/ lo spirito mio di riposarsi/ in Marcelie”
Infine nei versi che mi sono più piaciuti di “Cantami un lied” Giovanna che pure non è nata su queste montagne di Carnia, e riuscita a farle parlare. Ne ha sentito la voce nelle “note lontane di un canto mattutino”. Si è sentita vivere con il vivere della natura, ha dato voce ancora alle Agane, che erano acqua ed erano fate, spirito e natura assieme. Le Agane metafora di un vivere nella natura e con la natura, che cantavano come Giovanna “Portami da lontano/ le note di un canto mattutino/ il canto del risveglio/ abbracciata alla paglia”


lunedì 18 giugno 2007

Le radici

No! Luciano le sue radici le aveva calate nella tavolozza di colori che si trasforma al mutare delle stagioni, grondanti dei profumi dei fiori di campo, degli odori del muschio nei boschi e del fieno nei prati. Le sue radici erano intrise dei rumori d’un piccolo paese di contadini nel quale le case s’alternavano alle stalle, aggrappate le une alle altre a ridosso del ciottolato delle strade strette. Su quei sassi lucidi, levigati da passi infiniti, scivolava a sera il suono delle campane per l’Ave maria e si fondeva con il richiamo delle madri, con il muggire delle mucche.
Le sue scene non erano di cartapesta, non erano fotografie sbiadite. Emergevano e si stagliavano nel ricordo, vive, come erano state raccolte, come se ancora potessero ripetersi con la medesima vitalità. Vivo il ruscello che scendeva tra i sassi, con parole sempre diverse. Vivo il bosco che alitava al limitare del prato, che stormiva tra gli alti faggi, che frusciava tra i folti abeti. Vivo il sole che al tramonto giocava con le ombre, rincorrendole tra le montagne, per sciogliersi poi all’orizzonte, sulle ultime catene infuocate delle dolomiti carniche.
Vivo l’umore della notte che si infiltrava tra le case, sgusciando dalle porte socchiuse, con il respiro di elfi e di streghe, quando il piccolo paese sperduto tra le montagne si scioglieva nel brivido della notte, per diventare un paese del mondo ove Pinocchio se la vedeva con la piccola vedetta lombarda, Biancaneve fuggiva con la Sirenetta e Robin Hood si incrociava con l’Ebreo errante.
Da "Lo strano sogno" - Igino Piutti - Editrice UniService-Trento

mercoledì 13 giugno 2007

Autonomismo e Identità

Da carnico a fianco di Strassoldo contro l’autonomismo carnico, per poi finire a fianco di Strassoldo a battersi per l’autonomismo friulano? Con quale coerenza? Se così fosse, nessuna! La coerenza sta nel fatto che sono contro l’autonomismo. Mi pare una inutile battaglia di retroguardia. Una sorta di narcisistico voler guardare indietro per nascondere la mancanza di idee su come andare avanti. La prospettiva per il futuro non può essere più quella dell’autonomismo, ma quello delle reti. La rete non annulla la specificità, la diversità, anzi la esalta. La rete è il confronto di tante identità che nel colloquio si esaltano e si aprono. L’autonomismo è lo scontro di tanti campanilismi, che sprecano inutili energie nell’esaltazione esasperata delle diversità.
La diversità fra Trieste e il Friuli è di una evidenza indiscutibile. Può essere analizzata per accentuare la separazione, oppure può essere considerata come un valore da mettere in gioco. Un centro di ricerca di livello internazionale come quello di Trieste, e un sistema produttivo come quello friulano, se messi in rete, fanno un sistema regionale di innovazione, senza eguali a livello italiano e non solo. Se viceversa Udine spreca risorse ed energie a duplicare Trieste, si produrranno due mediocrità provinciali, invece che una eccellenza regionale. Purtroppo sono questi, discorsi che non muovono larghi consensi. Il popolo ha bisogno di scendere in campo contro qualcuno, allo stadio come in piazza, e la demagogia deve rincorrere il popolo se vuole il suo consenso. Ma alla fine anche il popolo si accorge di essere stato usato…
Io mi auguro che anche questo dell’identità nella rete possa diventare un tema del dibattito della nuova Fondazione della Casa delle Libertà. Alle tre "i" di Tondo, innovazione infrastrutture e internazionalizzazione, ne aggiungerei una quarta: l’identità. Immaginerei così un programma di animazione culturale che porti ogni realtà non solo provinciale ma anche di singolo paese a valorizzare la propria identità della lingua, delle tradizioni e della microstoria. Ma non per chiudersi e ripiegare sulle “piccole cose di pessimo gusto”, ma per aprirsi, accettando il confronto, volendo e cercando la possibilità di mettersi in gioco. Dice Henry Riviere che il passato deve essere visto come uno specchio nel quale guardarsi per imparare a costruire il futuro. Il concetto è ripreso nel termine ormai abusato di “glocale” nel quale si è cercato di mettere assieme l’esigenza di far rete a livello globale, con la necessità di accentuare il valore locale dell’identità. Nell'interesse sia dei singoli punti che della rete. Infatti più sono forti e riconoscibili nella loro identità i nodi della rete, più la rete è forte. Più la rete è forte, maggiore è il vantaggio che può far ricadere sui singoli nodi.

Da Arta a Trieste.

Si licet parva componere magnis, dicevano i latini. Non sempre è possibile mettere a confronto le piccole e le grandi cose. Ma alle volte sì! E forse allora è anche lecito confrontare come si comporta l’on Tondo, nel piccolo del territorio della Carnia, ove risiede, per capire se veramente sta studiando da Presidente della Giunta Regionale.
Nel suo blog si legge che dopo i risultati delle elezioni comunali di Arta Terme si è incontrato con FI, Lega e AN del Comune “per valutare il percorso politico conseguente alla sconfitta elettorale determinata dalla scelta sciagurata (ne porteranno le conseguenze) dell'UDC di allearsi col centrosinistra di Marsilio”. Per chi non avesse seguito la vicenda: il Sindaco uscente Somma di Forza Italia è stato mandato a caso da una alleanza di sinistra, con il supporto determinante dell’UDC.
Da un politico al suo livello ci si sarebbe aspettati almeno che l’incontro di cui si parla nel blog, fosse avvenuto prima della formazione delle liste, quando l’UDC aveva manifestato le proprie intenzioni. Atteso che il segretario della Sezione UDC di Arta è anche vicePresidente del Consorzio di cui Tondo è presidente e Somma direttore non doveva risultare difficile organizzare l’incontro.. A meno che non si dia per acquisito che l’UDC debba essere lo zerbino della Casa delle Libertà e che Casini debba fare il chierichetto di Berlusconi!
La scelta comunque di contribuire al cambiamento ad Arta è nata nella sezione locale del partito, tenendo informati i responsabili sia provinciali che regionali. L’UDC confermando la collocazione di alternativa alla sinistra, ha ritenuto nel caso particolare di dover privilegiare l’interesse del paese, e quindi, a maggioranza, si è deciso di essere prima di tutto alternativi ad un certo modo di amministrare.
Se Tondo fosse stato attento a ciò che diceva il paese, e non a ciò che dicevano gli amici degli amici, non avrebbe lasciato che venisse bruciato il sindaco uscente.. Ma la supponenza di Forza Italia ha fatto pensare, qui come altrove, che il Centro destra possa far a meno dell’UDC. Per non “portarne le conseguenze” ad altri livelli, Tondo farebbe bene a tener conto dell’insegnamento di Arta!…
Se c’è qualcosa che l’UDC di Arta deve rimproverarsi è il fatto di aver sostenuto il Sindaco pur essendo stato messo all’opposizione per il comportamento scorretto di Forza Italia, nelle precedenti elezioni. E in cinque anni la Forza Italia di Tondo, non ha mai pensato di recuperare l’alleato. Uno che studia da Presidente, dovrebbe imparare sulla piccola scala, per poi farne uso nella grande, che i fondamentali consistono nel saper fare la squadra e farla collaborare.
Quando poi parla del “centrosinistra di Marsilio”, implicitamente alternativo al centrodestra di Tondo, farebbe bene a ricordarsi che in Carnia e in tutta la Regione, ci sono tante persone che non sono né di Tondo né di Marsilio, ma sono semplicemente persone che pensano con la loro testa e che quando si impegnano in politica, lo fanno perché credono nella democrazia partecipativa.
Se volessi scendere al suo livello potrei ricordare le volte che Tondo ha privilegiato “gli uomini di Marsilio”, o la sua (questa sì “sciagurata”!) scelta di contrastare il candidato sindaco di AN a Paularo.. Potrei ricordargli le amministrazioni comunali che in questi anni Forza Italia ha perso in Carnia. Potrei persino ricordargli che sono state le sue bizze, non quelle dell’UDC, a spianare la strada a Illy. Sulla minaccia di conseguenze per chi si è spostato a sinistra, potrei augurarmi di avere le stesse conseguenze che ha avuto lui, finendo a leader di Forza Italia, dopo aver fatto il sindaco con Rifondazione Comunista.
Ma non è il caso, non siamo così “beceri”! Ho già scritto che il fatto di poter esprimere il Presidente della Giunta Regionale per la Carnia costituisce una grande opportunità, per questo mi dispiace di dover constatare che troppo volte, studiando da Presidente, Tondo commette degli errori. Questo di Arta è uno! La minaccia sulle conseguenze con cui commenta l’accaduto sul suo blog è il secondo.
C’è solo da augurarsi che sbagliando in casa impari a non sbagliare fuori, a livello regionale!!! Comunque può stare tranquillo, l’UDC di Arta e della Carnia, non è con Marsilio. Ma neppure a priori con Tondo. E’ con chi nel Centro Destra saprà impostare una vera politica di sviluppo per la montagna, alternativa alle promesse non mantenute da Illy! Se sarà lui a saperlo fare, consideriamo un valore aggiunto il fatto che sia carnico, e ci sarà un motivo in più per l’UDC della Carnia per perdonargli gli errori fatti in casa, e continuare a collaborare. Non siamo al livello di quei bravi cittadini di Arta Terme, che hanno inviato una lettera al Presidente della Provincia Strassoldo chiedendo la revoca dell’Assessore Caroli loro concittadino…
Piutti Igino
Coordinatore dell’UDC della Carnia.