mercoledì 27 giugno 2007

Le stagioni del contadino.

Da (Lo strano sogno - Editrice UniService - pag. 165)
I suoi ritmi erano quelli segnati dal rincorrersi dei giorni, dal mutare delle stagioni, dallo sviluppo della natura che impone l’ordine del lavoro del contadino. Erano i ritmi che avevano cadenzato la vita di sua madre, e prima di sua nonna, e prima ancora della nonna di sua nonna e di tutte le donne che avevano nei secoli lavorato sui quei prati, attraversato quei boschi, percorso quei sentieri.
Da sempre era venuto marzo a sciogliere le ultime nevi, e per sempre sarebbe venuto con lo stesso fondale, obbligando alla recita dell’identica scena.
Negli angoli meno soleggiati c’è ancora la neve, e sul sentiero la terra s’increspa gelata, intrisa di brina . Ma più avanti ove il tepore del sole di primavera ha sciolto la terra, il prato ha ripreso a muoversi nel primo brivido di vita. È scoppiato il bianco dei bucaneve sul terreno ancora sporco dei colori dell’autunno. E poi il giallo delle primule, mentre il prato è percorso dal verde brivido dell’erba, che spunta tenera emergendo dall’umore della terra. La quercia trattiene ancora le ultime foglie bruciate dal gelo dell’inverno, ma il sole ha disciolto la linfa che ora percorre la pianta con un fremito nuovo, e scoppiano le prime gemme.
Il contadino tuttavia è come un attore che non guarda al fondale del palcoscenico sul quale deve recitare, per lui tutto il fervore di vita del prato a marzo, è solo un prato che deve essere “rimondato”, pulito di nuovo.
Perchè non si rovini la falce e perchè il fieno possa essere raccolto pulito, è necessario passare con il rastrello tutti i prati per raccogliere tutte le foglie cadute dagli alberi, i rami secchi ed i sassi. È il primo lavoro. Quasi un passatempo per sgranchire il corpo, dopo l’inerzia dell’inverno.
A Pasqua la terra è pronta per essere smossa. Ove i pendii della montagna sono meno inclinati si sono ricavati i piccoli campi. La vanga premuta dal piede, si infila a fatica nella terra che s’è compattata sotto la neve. Il corpo s’inarca nello sforzo di sollevare la zolla che, rovesciata, viene disposta per accogliere il seme. A concimare la terra quindi una striscia di letame formata distribuendo con la forca i mucchi precedentemente realizzati, portando il letame con le gerle. Poi il seme: sullo strato di letame nero, più nero del solco, una fila di patate, bianche, tagliate a pezzetti.
Non troppo distanti per non perdere spazio, non troppo vicine per non sprecare il seme! Quasi un gioco per bambini…
“Ma distanti quanto? Vicine quanto?…”
Poi di nuovo con la vanga, un colpo dopo l’altro, a rovesciare la terra per coprire il seme.
Oppure no, per fare la rotazione, quest’anno è meglio il granoturco. La stessa lavorazione, ma il seme no.
Il granoturco si semina alla fine.
I semi di grano nel grembiule raccolto a mo’ di sacca. Con la sinistra ne cogli un pugno, che poi distribuisci. Due o tre alla volta, dietro al sarchiello, con il quale hai aperto la terra.
All’Ascensione l’erba e matura. Inizia il ritmo più intenso e pesante dei lavori d’estate.
Falciare! All’alba quando l’erba è ancora madida di rugiada. Così la falce scorre più sciolta e si fa meno fatica, dicono i vecchi! Ma s’alza presto il sole d’estate. Scende dal monte di fronte e fa brillare le gocce di rugiada sull’erba. E si svegliano con lui anche i tafani. Inebriati dall’odore della pelle, umida di sudore, danzano attorno impazziti per gettarsi all’improvviso come sparvieri a pungere ed a succhiare il sangue.
Per ore la stessa cadenza. Ruotando il corpo per imprimere più forza all’impatto della falce con l’erba. Rompendo il ritmo solo per rifare il filo con la cote. E tutto intorno, al sibilare delle falci, s’alterna lo stridio delle coti, che copre il canto di fondo dei grilli, l’improvvisazione del merlo, la monotona insistenza del cuculo.
Poi stendere al sole i solchi d’erba tagliata, formati dalla falce. Girare l’erba perché si secchi più in fretta, metterla in covoni a sera, perché la rugiada non la bagni. E il giorno dopo, ripetendo la medesima scena, su un’altra parte di prato, continuare con il secondo atto della lavorazione. Sciogliere i covoni al sole, e girare ancora una volta il fieno, ormai quasi secco. Dopo pranzo infine, quando il sole picchia più forte, raccoglierlo per portarlo nel fienile.
Due corde, distanti tra loro una trentina di centimetri, da stendere sul prato di traverso, ad angolo retto rispetto all’inclinazione del terreno. Anche questo è un lavoro per bambini! “Non così! Non vedi che sono troppo inclinate?” sgrida la mamma.
Sembra facile! Ma una bambina non può avere l’idea dell’angolo retto, rispetto alla pendenza del prato!
Raccogliere con il rastrello il fieno a “falde”. Comprimendolo contro le proprie gambe per farne delle specie di cuscini, da porre poi sulle corde, sovrapponendoli l’uno dopo l’altro. Cinque o sei, a seconda della distanza del prato dal fienile e della forza del portatore. Poi sotto il sole che picchia con rabbia, infilare la testa in una sorta di nido incavato al centro del fascio di fieno che scotta, sedersi, addossandosi il fascio alla schiena, e quindi, mentre qualcuno t’aiuta spingendo da dietro, issarlo, in bilico sulle spalle. Alzarsi a fatica, reggendo l’enorme pesante copricapo e prendere a camminare, riuscendo a vedere quel poco che serve per non incespicare seguendo il sentiero.
Andare, nel sudore che scioglie la testa, e il pulviscolo che s’appiccica al volto. Andare, per dieci, per venti, per trenta minuti, appena riuscendo a vedere, dove mettere il prossimo passo. Liberarsi infine del peso, nella bolgia infuocata del vecchio fienile, nell’angusto intramezzo, tra il fieno in catasta e il tetto dagli embrici che scottano, bruciati dal sole...
Sciogliere le corde in quell’afa che toglie il respiro, e scomporre il fascio del fieno, spargendolo sulla catasta. Calpestarlo e pigiarlo, perchè non occupi spazio di troppo, nella nube del pulviscolo che s’appiccica al corpo.
E alla sera c’è ancora qualcosa da fare. A San Giovanni nel campo, a rincalzare la terra sulle piante di granoturco appena spuntate. In silenzio, in un mare di lucciole che si muovono a scatti, avvolgendoti in una atmosfera magica ed irreale. Mentre le ombre della notte si fanno sempre più fitte e più luminosi i punti di luce impazziti, l’alito della terra fa vibrare le foglie, umide ancora nello sforzo per nascere.
E con le prime ombre che scendono dalle montagne s’affollano e addensano sui tuoi pensieri, altri pensieri, altre figure.
Sono le donne che da sempre, alle falde della montagna dalla quale si vede il mare, nelle notti di S.Giovanni nel turbinio delle lucciole hanno sentito il vuoto del finire...
E le ombre prendono a vivere di quei pensieri e ti assale la paura. La folla sembra che voglia travolgerti e senti il bisogno di fuggire, per nasconderti nella solitudine della casa, sbarrando la porta agli altri pensieri che vivono nella notte.
Poi il buio s’incrina, le lame rosse dell’aurora lo fendono e di nuovo il sole si sporge dalla Damarianna, la montagna di fronte. Ogni giorno un po’ più in alto, a scandire il passare del tempo con la sua scalata del monte. E viene alla fine l’autunno.
Finalmente l’erba non ricresce più! Finiscono gli impegni della fienagione. Ma ci sono ancora i raccolti da fare. A fine settembre ci cono le patate. La vanga riprende le zolle rivoltandole per mettere a nudo i grappoli dei tuberi. Man mano che arretri tra solco e solco si forma la striscia bianca delle patate ad asciugare al sole. Si devono raccogliere poi, scegliendo per il maiale quelle spezzate dalla vanga e quelle troppo piccole. (Altro lavoro per bambini!) Ma piccole quanto? E quanto grandi, perchè siano buone per gli uomini?
E cominci ad imparare che tutto è relativo. Dipende infatti dagli anni. Se è stata una buona annata le patate sono più grandi, se invece c’è stata troppo pioggia oppure troppo poca, le patate sono più piccole. Non esiste nella vita una misura certa, un calibro preciso, anche i bambini dovrebbero cominciare a capirlo...
Intanto il bosco si tinge dei colori dell’autunno. Dal basso, come se ogni giorno il pittore aggiungesse una riga nuova al suo disegno, il verde viene coperto dal giallo bruciato dei faggi e dal marrone delle querce, viene macchiato dal rosso dei ciliegi e dal bianco delle betulle.
Quando il nuovo colore ha raggiunto le vette siamo ormai alla festa dei morti: è l’ora del granoturco. Le piante sono già state troncate appena al di sopra della pannocchia. Le mucche vanno ghiotte dei gambi di granoturco ancora freschi, tagliati a pezzetti. Il campo con quei monconi a mezza altezza, sembra una testa rapata per punizione.
Fa tristezza percorrerlo, sfilando le pannocchie per buttarle nella gerla portata sulla schiena. Ti senti una ladra! Come è possibile che quelle piante abbiano faticato invano! Gli era già stata tolta la parte più alta, con il pennacchio del quale andavano fiere. Come soldati avevano sfidato i temporali estivi, il vento impetuoso e la grandine battente. Ora dopo aver perso l’elmo, erano costrette a lasciarsi strappare le armi…
Solo per la pannocchie quei gambi di granoturco erano diventati così alti: perchè meglio potessero cogliere i raggi dei sole. Ora invece, tutto si risolveva in un attimo, nel gesto brutale della mano che d’un colpo staccava quei frutti, per buttarli nel fondo d’una gerla.
A turno si riunivano poi le famiglie, attorno al mucchio di pannocchie deposto in un angolo della casa, per aiutarsi nel lavoro di ripulitura.
Con gesti secchi le donne aprono le foglie, senza badare all’imbarazzo del frutto che si vede messo a nudo, così all’improvviso, nell’ordinato disporsi dei chicchi, nelle file regolari che lo percorrono in tutta la lunghezza. Le foglie vengono quindi strappate e deposte in un mucchio, strame per le mucche. Le più sane e belle, a parte, per cambiare il fogliame del pagliericcio, che si usava come materasso.
La pannocchia nuda, con due o tre foglie soltanto in testa, (bianche perchè più interne, mai toccate dal sole) come una sposa agghindata per la sua festa, viene passata alla donna più esperta, incaricata dell’intreccio. Sovrapposte le une alle altre, attraverso le foglie intrecciate tra loro, le pannocchie vengono composte in un enorme grappolo, per essere poste a maturare facendo bella mostra di sé sulla linda di casa, nel tiepido sole d’autunno...
E il bosco cambia ancora. Con il grigio dei faggi ormai senza foglie, sembra spruzzato di nebbia per prepararsi al gelo dell’inverno. Cade allora la prima neve, lontano, sulle cime più alte, in grigie giornate di freddo, quando solo lo scricciolo trova il coraggio di muoversi tra i rovi. Poi la nevicata s’avvicina, come un velo bianco che viene steso lentamente dall’alto a coprire a poco a poco tutta la montagna. E infine arriva anche in paese!...
“Nevica!” Si dicono i bambini felici perchè coperta dalla neve la terra non sembra prestarsi ad altro che al gioco.
“Nevica!” Si dicono i grandi, dispiaciuti che quella coltre di neve cancellando ogni cosa impedisca loro di usare della propria terra, di ritrovare i propri sentieri.
“Nevica!” Ed ogni fiocco sembra voglia cancellare qualcosa. Si posano discreti come un bacio, prima sciogliendosi nella terra, quasi a cercare l’intimità…poi la natura che freme sorpresa a quell’incontro subdolo, lentamente, viene coperta ed annientata nella irreale distesa di bianco.
Nevica! E con la neve da sempre, allo stesso modo, si chiude il ritmo della stagione...
Nevica! E come sempre, marzo scioglierà l’ultima neve per un nuovo anno di lavoro...

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