mercoledì 4 ottobre 2023

Carnia domani.

 

          Ai tempi del mio impegno come amministratore pubblico (Sindaco di Tolmezzo e Presidente dell’Agenzia per lo sviluppo economico della montagna), pensavo che la montagna si dovesse salvare dalla piaga dello spopolamento, portando i posti di lavoro in montagna. Ora che mi interesso della storia (è appena uscita la seconda edizione della Storia della Carnia), m’è venuto il dubbio ch l’approccio si stato sbagliato.

            Nel nuovo capitolo che ho inserito, intitolato “Carnia in Crisi”, metto in evidenza come c’è una fuga in atto non motivata più dalla mancanza dei posti di lavoro, ma proprio dal rifiuto di vivere in montagna. All’entusiasmo di quelli che vengono da fuori e ne scoprono la bellezza, fa riscontro nei nativi  una sorta direi quasi di odio derivato forse dai maggiori sacrifici sia economici che personali che comporta la vita in montagna ma anche come rileva Patrick Heady, citato  nel mio testo, dal fatto che per i giovani non è facile vivere con un “popolo duro” in un’atmosfera sociale dominata dal binomio “invidia ed egoismo”.

            Comunque la si pensi, dalla storia si ricava che la Carnia, come in genere la montagna, è stata abitata intensamente, perché consentiva in qualche modo di sopravvivere. Prima nella forma comunitaria delle vicinie, poi anche nella parcellizzazione esasperata dei terreni,  l’erba dei prati consentiva di allevare degli animali che con i loro prodotti garantivano la possibilità di vita degli uomini. Ci si è spinti così a raccogliere fin l’ultimo filo d’erba a ridosso delle rocce, distribuendo gli insediamenti umani ovunque ci fossero dei fili d’erba da raccogliere.

            Ora che l’erba ha perso ogni valore, che senso ha investire per convincere la gente a restare dove è finita per necessità e non per scelta?

            Da altre parti si è saputo sostituire il valore dell’erba con quello della bellezza del territorio e si è sviluppata un’ economia basata sul turismo. Ci aveva provato anche la Carnia all’inizio del secolo scorso. Ma  come testimoniano i tanti alberghi chiusi, si è preso atto che non era dei carnici la vocazione al turismo.

            E quindi?

            In attesa che qualcuno mi aiuti a darmi una risposta, in una visione distopica, immagino la Carnia con i paesi tornati allo stato di vicinie, con i prati commassati nel diritto d’uso e gestiti da un’unica azienda agricola in grado di reggersi economicamente, nelle modalità dell’agriturismo. Azienda che diventa punto di riferimento per un nuovo originale movimento turistico di quelli che dalla pianura e dalle città vogliono salire in Carnia per approfittare del silenzio dei paesi diventato assoluto e recuperare l’equilibrio psicofisico. O per ricercatori, studiosi e intellettuali che collegati in rete con il mondo vogliono approfittare del silenzio per spremere meglio le meningi.

           

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