sabato 23 dicembre 2017

Il Presepe alla Gerla Blu

                A Verzegnis, accanto ai Presepi pregevoli realizzati dall’Amministrazione Comunale davanti alle varie chiese del paese , c’è quello allestito dai privati proprietari e gestori del B&B La Gerla Blu. 
Lui d’origine colombiana lei albanese, a dire che il presepe è anche incontro di culture diverse. Il cortile retrostante è stato trasformato in una sorta di presepio. Le cataste di legno del bosco di Verzegnis e, in terra, lo strame che s’usava un tempo nelle stalle, fanno da scena e da sfondo  alla mostra dei presepi di Franco Faleschini. L’odore del legno si mescola a quello dello strame e crea un profumo che riporta il visitatore a rivivere la suggestione dell’ingresso in quella grotta di Palestina ove, per i cristiani, è nato il Redentore.
 Nella tradizione istituita da san Francesco,  quel bimbo è Gesù. Per tutti è un bimbo la cui nascita dà significato alla famiglia, accende le speranze per il futuro.
                E’ questa l’idea che ha portato Faleschini a collezionare oltre mille presepi ma soprattutto a realizzarne in proprio oltre trecento. Gli scrittori scrivono con le parole, i registi con le immagini.  Faleschini ha scelto di comunicare costruendo presepi, ambientando in vari modi la scena d’una famiglia e d’un paese di pastori che gioisce per la nascita d’un nuovo abitante. Vuole comunicare due cose: che la famiglia è un valore che trova la più alta espressione attorno alla culla d’un neonato, che l’ambiente agro-pastorale nel quale si colloca la scena è un ideale di vita.
                La scintilla che ha acceso la sua passione per i presepi è stata, il trauma della morte di suo padre. Nei giorni precedenti il Natale. Aveva quindici anni. Per esprimere il suo dolore e il rimpianto per la sua famiglia distrutta dalla perdita del capofamiglia, per consolare il fratello più piccolo, ha costruito il suo primo presepe. Poi non si è più fermato! Suo padre era di Treppo Carnico, sua madre di Intissans di Verzegnis, lui invece e nato a Cittadella di Treviso ove i suoi erano emigrati. Ma la nostalgia della Carnia che gli hanno trasmesso i suoi genitori, costretti ad abbandonarla, è diventata per lui un amore. La costruzione dei  Presepi un modo per ripensare alla Carnia, alle sue tradizioni al modo di vivere dei suoi abitanti.
                Da giovane gli si erano aperte ben altre prospettive di vita. Giocando a calcio come portiere  era arrivato in serie A con il Bologna, e nella squadra dell’Italia per le Olimpiadi. Ma le preoccupazioni e l’apprensione della madre vedova l’hanno condizionato, e convinto a lasciare per trovarsi un lavoro “normale” vicino a casa. Per uscire dalla normalità del lavoro e della vita quotidiana, ha trovato una valvola di sfogo nella poesia del presepe, che è diventata per lui il filo rosso che ha conferito un senso originale alla sua vita
. Gli oggetti della vita d’ogni giorno, nella sua immaginazione diventano “location” luoghi da presepe. Il passaggio dall’immaginazione alla realizzazione un hobby, un passatempo, per riscrivere in forme sempre nuove il suo mondo poetico sul tema della famiglia e della natività.
                Nei suoi presepi il Natale più che la rievocazione della scena madre della religione cristiana, è la festa della famiglia che s’allieta nella nascita d’un figlio. Per questo i presepi alla Gerla Blu di Verzegnis, creano una suggestione e inducono a una riflessione che prescinde dal significato religioso. 
La casa con il presepe diventa presepe a sua volta.
Il Natale per i Carni e poi per i Romani era il giorno (Dies Natalis) che segnava la rivincita del Sole (Sol invictus) che riprendeva a salire per aprire l’anno nuovo. Il Bambino nella culla per Faleschini è il sole che entra nella casa, nelle famiglie.
                Un Presepe il suo, che ha un senso condivisibile per tutti al di là del credo religioso. Dei percorsi per ritrovare nella poesia della Carnia il senso del proprio futuro, al di là di quelle che possono essere le proprie radici di partenza. Non a caso i gestori del B&B sono lui di diversa origine etnica, e hanno trovato nei Presepi di Faleschini qualcosa che li unisce, per immaginare il proprio futuro in Carnia.
                In quel bimbo posto in un giaciglio e inserito in una scena che rievoca multiformi suggestioni della Carnia di ieri, è riposta la speranza per il nuovo anno. L’invito a ritrovare nel passato le radici per costruire la speranza d’ogni giorno dell’anno che s’apre. Nuovo nelle speranze e nei propositi, come è nuovo alla vita il neonato nella culla. 


venerdì 17 novembre 2017

Migranti telefonici.

MIGRAZIONE TELEFONICA
UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA
                Tutto cominciò con una telefonata. Non ho ben capito inviata da chi. Mi si informava che il costo della mia linea fissa con Tim Telecom stava per essere praticamente raddoppiato.
                “E’ finito il periodo il offerta!”
                “E io migro con un altro operatore!”
                “Provaci!”
                Ho provato a cercare in internet una soluzione più vantaggiosa”
                Il ragno di Google deve aver scoperto cosa cercavo. Sono stato subito contattato infatti da Comparasemplice, e una voce accattivante mi ha indotto a chiudere lì per li, online, un contratto di migrazione in Wind. Era il sette novembre.
                Ho stampato il file e sono corso in un punto vendita a ritirare il modem, come specificato nel contratto.
                “Col cavolo!” mi ha detto il gestore, “avresti dovuto venire da me a fare il contratto!”
                “E che ne so io! Vedo dall’insegna che è un punto di vendita Wind e chiedo che mi venga consegnato ciò che il contratto Wind ha previsto”. Nulla da fare! Riprovo i giorni seguenti. Senza esito!
                “Forse a Udine, nel capoluogo di Provincia,” penso. Ci provo!
                “Qui no! Forse in un altro punto vendita in periferia. Se vuol provare!”
                E che devo fare la via Crucis alla ricerca d’un modem? Torno a casa incazzato. Scarico il modulo di recesso. Lo compilo. Vado in posta e faccio una raccomandata celere con ricevuta di ritorno.
                Accidenti! Dieci euro, meno qualche centesimo!... E tutto è nato perche volevo risparmiare!
                Era il 15 settembre. La notte successiva il modem va in rosso. La Telecom ha staccato e quindi sono senza telefono e senza internet.
                In mattinata chiamo il 187.
                “E che vuoi? Se migrato e veditela con il nuovo operatore!”
                Chiamo il 155 con il mio cellulare Tim. Una voce cortese mi avverte che la telefonata è gratuita solo dai cellulari Wind e dai fissi Telecom.
                “Ma se il fisso Telecom, mi è stato staccato!” Fortuna vuole che una nipote abbia la sim Wind, le chiedo il cellulare e chiamo.
                “E’ impossibile che non le abbiano fornito il modem!”
                “E che son stupido? In due negozi mi è stato rifiutato!”
                “Comunque per tagliare la testa al toro io ho fatto il recesso.”
                “Ma a noi non è giunta la raccomandata!”
                “Immagino! Per quanto mi sia costata cara la velocità delle poste, non posso pretendere la velocità della luce. Ma mi sapete spiegare perché ho potuto fare il contratto online e non è invece ammesso la disdetta e il recesso online?

                Vorrei almeno mettere online questo sfogo. Ma non ho internet!

giovedì 12 ottobre 2017

Tiramisù

        
L’origine storica del Tiramisù e del Mascarpone.

   Raimondo della Torre fu Patriarca d’Aquileia dal 1273 al 1299. Appena insediato si rese conto dell’ importanza per l’economia del Patriarcato  del passo di Monte Croce Carnico e quindi del ruolo  di Tolmezzo a presidio sulla strada per il passo. Alla cittadina concesse il privilegio della raccolta del dazio sul commercio della Carnia perché si facessero le mura. I tolmezzini, in segno di gratitudine, sulla porta di sopra, hanno scolpito il suo stemma.
       Ma oltre le motivazioni  geo-politiche a rinsaldare i vincoli di amicizia di Raimondo con Tolmezzo contribuì il suo amore per la buona tavola. Aveva nominato gastaldo della Carnia suo cugino Eghelberto della Torre, famoso buongustaio milanese e la tavola del gastaldo della Carnia si distinse subito per la raffinatezza. Merito soprattutto del cuoco Cromazio  che il Gastaldo era riuscito a scovare nel paese di Cazzaso, un innovatore appassionato,  affascinato dal desiderio  di nuove pietanze con nuovi gusti e sapori  ma preoccupato anche  della genuinità del cibo. Al punto che, volle produrre in proprio  il formaggio, alimento base della sua cucina.   
     Nelle cantine del castello s’era fatto costruire una piccola latteria e il gastaldo obbligò i suoi contadini a conferire al castello la decima del latte prodotto. Poteva così far colazione con il burro di giornata, mentre il formaggio e la ricotta venivano stagionati a seconda delle pietanze a cui erano destinati. Per non sprecare nulla, Cromazio s’era inventato anche la ricetta del Formàdi Frant. Faceva fermentare i resti del formaggio e persino le croste, unendovi delle erbe sempre diverse, ottenendo  così un prodotto con sapori sempre più inusitati.
        Ma, come capita spesso, fu invece opera del caso la scoperta del formaggio che rese Cromazio famoso in tutto il Patriarcato e oltre.  
        Una mattina aveva appena raccolta la panna affiorata nelle mastelle nelle quali era stato conservato il latte durante la notte. Aveva deciso di cuocerla per farne l’ont (burro fuso in friulano) da conservare.  Fu chiamato dal Gastaldo proprio mentre  aveva sul fuoco sia la pentola del burro che quella del formadi frant. Aveva appena ordinato ad un suo inserviente di  spremere alcune gocce di limone in quella del formadi frant. Voleva verificare che gusto ne sarebbe derivato a fermentazione avvenuta.
       Al richiamo del superiore si precipitò lasciando perdere ogni cosa. Al ritorno chiese all’inserviente se aveva spremuto il limone. Gli rispose di sì, indicandogli il recipiente che conteneva la panna. Ci si può immaginare la scena! Urla, bestemmie, pedate nel sedere dell’inserviente. Ma ormai era fattal Rovinato il burro della giornata! Anche perché si era spento il fuoco e si era interrotta la cottura del burro.  Come aveva dimostrato con l’invenzione del formadi frant, Cromazio era cresciuto a Cazzaso nella miseria e non sarebbe stato capace di sprecare nulla. Tanto meno la brume (la panna), la parte più pregiata del latte.  Rovesciò la pentola con la panna  su una delle tele che usava per contenere la ricotta e ne fece un sacchetto, come appunto fosse ricotta.  Bestemmiando ancora contro la stupidità del suo inserviente, portò il nuovo prodotto nel fresco della cantina e  l’appese, accanto ai salami. “Vedrò cosa farne poi,” e con una ultima imprecazione, preso da altre cose,  si dimenticò dell’incidente.
       Solo il giorno dopo, mentre staccava un salame, gli tornò agli occhi il sacchetto.
“Son curioso di sapere che  cosa ne è avvenuto della panna al limone!” disse. Rovesciò  il sacchetto in un piatto e si trovò davanti un composto cremoso,   bello anche da vedersi. Quando prese ad assaggiarlo, non potè trattenere una bestemmia di soddisfazione. Una prelibatezza! Qualcosa dal gusto raffinato. La stupidità del suo inserviente aveva inventato un derivato dal latte che non era né burro nè formaggio nè ricotta, ma qualcosa di nuovo.  D’una bontà eccezionale.
       Capì subito che il miracolo era opera delle gocce di limone, ma anche del fatto che il fuoco si era spento,  fermando la cottura ad una temperatura ideale per realizzare il prodotto. Ci mise alcuni giorni a definire la ricetta, con diverse prove andate a vuoto. Bisognava trovare la giusta temperatura e la giusta quantità di limone che aveva provocato il miracolo. Alla fine ci riuscì e scrisse la ricetta
       Si doveva scaldare  in una casseruola la panna a fuoco lento mescolandola con un frusta fino a fare raggiungere gli 80/85 gradi. Poi aggiunte alcune gocce di limone si doveva continuare la cottura per un’altra decina di minuti . Lasciar quindi raffreddare nell’ambiente per 35 minuti, poi scolare in una tela, come fosse ricotta e mettere in fresco per almeno mezza giornata.
       Annunciò allora al gastaldo, gonfio il petto d’orgoglio e soddisfazione, di aver inventato un nuovo tipo di formaggio. Proprio  inquei giorni era in visita il cugino Patriarca. L’occasione cadeva a fagiolo per sentire i commenti sul nuovo prodotto.
               “Masse bon!” esclamò con enfasi l’arcidiacono della Carnia che era stato invitato per l’occasione e che, come di regola i prelati, era anche un buongustaio. “Che prelibatezza!” aggiunse il Patriarca con fare estasiato. “Come l’hai chiamato?” chiese il gastaldo a Cromazio, soddisfatto per la bella figura che gli stava facendo fare. “Non ci ho ancora pensato, non ho dimestichezza con le parole” confessò quello. Allora intervenne il giullare, anche lui di Cazzaso, che si divertiva invece a giocare con le parole e a fare anagrammi: “Mettendo assieme le vostre esclamazioni Mas Che Pre, se ricaverebbe un Maschèpre. “Non mi pare granchè, ma riconosco che è un nome originale, se va bene al cuoco tuo compaesano può andar bene a noi, cui più che il nome interessa il gusto veramente nuovo e squisito,” disse il Gastaldo. Il cuoco non aveva parole e quindi nel Patriarcato si diffuse la voce che a Tolmezzo era stato inventato il Maschépre.
       A questo punto il lettore vorrà sapere come mai non s’è continuato a produrlo.
       Per rispondere bisogna tornare alla storia.  Nel 1279 il Patriarca Raimondo guidò in Lombardia un contingente di truppe friulane in aiuto dei suoi parenti in lotta contro i Visconti, per  il dominio della Signoria di Milano. Naturalmente si offerse come volontario anche il nipote, Gastaldo della Carnia, che si portò al seguito anche il cuoco Cromazio.
       Con i buongustai però non si vincono le guerre! Fu così che i Torriani subirono una sonora sconfitta a Vaprio sull’Adda. L’armata friulana fu disfatta. Anche Cromazio cadde prigioniero e finì i suoi giorni a fare il cuoco nel castello di Abbiategrasso, che già dal 1277 era passato con i Visconti. Si fece benvolere  insegnando ai nuovi padroni  la ricetta del Maschépre, che nel frattempo aveva cambiato nome.
        Mentre si abbuffavano con quella nuova delizia del palato invece che prepararsi alla battaglia, i feudatari patriarchini si erano resi conto  che, almeno il nome della specialità che gustavano ogni giorno, doveva essere appropriato per l’ambiente militare. Maschèpre sapeva di frocio, per questo il giullare, lasciando inalterata la base, propose di cambiarlo nel più militaresco Mascherpòn, o Mascarpòn.
       Oltrechè sul nome ci furono grandi discussioni su quali fossero gli accostamenti migliori, se con il dolce o con il salato . Anche qui fu il caso a dare la soluzione.
       In una delle scaramucce che precedettero lo scontro finale, l’armata friulana si era scontrata con quella dei Conti di Savoia, alleati dei Torriani, ed era riuscita a fare qualche prigioniero. Tra questi il cuoco del conte. Cromazio si trovò ad avere così un valido collaboratore e assieme inventarono ricette eccezionali che fondevano la tradizione della Savoia con quella del Friuli. Come specialità il nuovo arrivato portava dei biscotti d’una particolare leggerezza che chiamava “savoiardi”. Fu per loro quasi inevitabile mettere assieme le due ricette: uno strato di savoiardi e uno strato di Mascherpòn, il tutto farcito con ottimo zabaglione al vino moscato del Piemonte, e ne venne fuori un dolce tanto squisito quanto facile a farsi.
        “Una bomba energetica!” commentò il giullare. Con questo “Tiramisù” saremo invincibili”, aggiunse, dando così il nome al nuovo dolce. Non fu così, perché  malgrado il Tiramisù furono sonoramente sconfitti. I Visconti si presero  la signoria di Milano, mentre i Torriani si spostarono in Friuli al seguito del loro Patriarca a godere dei feudi loro assegnati, ove deliziarsi di Tiramisù e Mascarpone. 
       Quando, nel 1420, Venezia pose fine allo Stato Patriarcale, prese a considerare il Friuli poco più che una colonia dalla quale importare legname per le proprie navi. Anche le buone tradizioni culinarie sviluppate con i Patriarchi si sono quindi perse. 
       Solo nell’ultimo dopoguerra, negli anni del boom economico è tornato in voga il Tiramisù Come mai sia venuta l’idea a Norma Pielli titolare e cuoca dell’Albergo Roma di Tolmezzo negli anni cinquanta del  Novecento, è facile a spiegarsi alla luce di questa storia. La Torre Raytemberger porta di accesso al castello patriarchino, negli annci cinquante era diventata cantina dell’Albergo.  E’ facile immaginare che vi aleggiasse lo spirito di Cromazio,  tornato da morto nei luoghi che avevano visto brillare la sua stella di grande cuoco. Invece che i numeri del lotto, come sono soliti fare i defunti, Cromazio  ha portato a Norma la ricetta. Come suggerito dall’anima di Cromazio, Astori  ha preso a importare da Abbiategrasso il Mascarpone che  i lombardi avevano continuato a produrre, sulla ricetta insegnata loro dal carnico prigioniero. Norma , da cuoca innovativa quanto Cromazio,  ha  arricchito la ricetta del Tiramisù, avuta in sogno, con i gusti del caffè e del cacao, prodotti che  nel Medioevo non c'erano ancora.

       Ecco come la storia da sempre “magistra vitae” è anche in grado di tagliare la testa al toro sulla querelle dell’origine del Tiramisù. Alla luce della storia che s’è letta, è fuor di dubbio che il moderno Tiramisù è nato a Tolmezzo, recuperando la ricetta dei tempi del Patriarca Raimondo Della Torre.

giovedì 21 settembre 2017

La nascita del Friuli

Il romanzo che ho scritto a quattro mani con Diego Carpenedo è ora in libreria in una nuova veste.
L'eleganza della presentazione mi auguro faccia apprezzare meglio il contenuto.
Recuperando i dati storici nel racconto di Tito Livio nel romanzo si sostiene la tesi che, all'arrivo di Roma, i Carni erano tutt'altro che "barbari".
Dall'integrazione tra la loro cultura e quella degli invasori Romani, è nata l'originalità del popolo friulano e della sua peculiare cultura.
Emblematico il fatto che non sono stati i dei romani a invadere la Carnia e il Friuli con una nuova religione, ma è stato il dio carnico Beleno ad entrare ad Aquleia,
A scanso di equivoci, come precisa Quintiliano Ermacora nel De Antiquitatibus Carneae, originariamente la Carnia andava dal Livenza al Timavo. La Carnia si identificava con l'attuale Friuli: Carnia, madre del Friuli.

venerdì 8 settembre 2017

Barabba in Carnia,

CRIST DI VAL.

                Che Ponzio Pilato il procuratore della Giudea colpevole di aver messo a morte Gesù Cristo, sia morto in Carnia è tradizione ormai consolidata in tante leggende. Ne ha parlato Giovanni Gortani e più recentemente Renato Zanolli nel libro “Guida insolita del Friuli”.
                Ma ciò che finora era sfuggito, sia agli storici che agli scrittori di leggende, è il fatto che in Carnia sia finito e sia morto anche Barabba, il malfattore che si è salvato lasciando a Cristo il suo posto sulla croce. Come si sono svolti i fatti è noto. Almeno ai più!  Pilato aveva già capito che gli conveniva mandare a morte Cristo per ingraziarsi gli Ebrei e fare bella figura con l’imperatore Tiberio. Due piccioni con una fava! Ma voleva prendere anche un terzo, facendo passare la sua decisione come decisione del popolo. Da precursore dei populisti del giorno d’oggi, sottopose al popolo la scelta tra Gesù e Barabba. Era sicuro dell’esito, sapendo che il popolo era già stato adeguatamente sobillato per chiedere la condanna di Gesù.
                Fu così che Barabba fu il primo degli uomini ad essere salvato dalla morte di Cristo. Fatto uscire dal carcere, mentre ormai s’era rassegnato a morire in croce, pieno di gratitudine per Pilato che l’aveva salvato, si mise alle sue dipendenze.
                “A te devo la vita,” gli disse, “è giusto che mi consideri tuo schiavo!”
                “Allora va e controlla che la persona che ti ha sostituito sulla croce, muoia veramente!”. Con questo primo incarico Pilato lo costrinse a vedere l’agonia di Cristo in croce. Immedesimandosi nel morente, suggestionato al pensiero che avrebbe dovuto essere lui ha gridare: “Ho sete!” Seguì la scena con una emozione indescrivibile. Sino alla fine. Sino alla deposizione dell'innocente dalla croce. Raccolse anche uno dei chiodi per documentare a Pilato d'aver assistito al fatto.
                Ma da quel momento la scena prese a vagargli per la mente, come un incubo. Un oggetto che si vuole affondare nell’oceano della dimenticanza, che però l’acqua della memoria  riporta forzatamente e continuamente a galla.
                Dice la storia che Pilato fu esiliato dall’imperatore Tiberio nelle Gallie. Ma la storia va interpretata, il dato vero è soltanto che fu mandato nelle Gallie. Il cuore delle Gallie al tempo, il luogo dell’incrocio culturale tra Galli e Romani era Aquileia. Ancora più in su verso il Norico, Julium Carnicum. Qui  fu esiliato Pilato, sempre seguìto dal suo schiavo Barabba. Guardato con sospetto dagli abitanti di Iulium Carnicum, preferì trasferirsi al di là del fiume e  si costruì una villa in un luogo ameno, alla confluenza del But con un bel torrente che scende dalle falde del monte Sernio, dal nome poetico di Mignezza. Alla morte di Pilato la località continuò ad essere chiamata “il luogo della casa di Ponzio”. In seguito, nel tempo, con le semplificazioni a cui ci ha abituato la storia,  chi vi si recava, prese a dire più semplicemente che andava in Ponzio. Da qui il nome Imponzo.“
                Secondo la leggenda il corpo di  Pilato fu sepolto lontano dal paese, sulla strada che portava in Friuli. In segno di dispregio si sviluppò l’usanza, per chi passava da quelle parti, di gettare un sasso sulla sua tomba. Sasso dopo sasso sarebbe sorto così il costone sul quale si è poi costruita la chiesa di San Floriano. Qui evidentemente gli scrittori di leggende si sono lasciati prendere la mano dal disprezzo che nutrivano per chi si porta la colpa materiale storica della morte di Cristo.
                Presi così dalla storia di Pilato si sono dimenticati quella di Barabba, che mi pare giusto riprendere.

                Il poveretto stava per impazzire non riuscendo a togliersi dalla mente la scena della crocefissione. Pensò che l’unico modo per salvarsi fosse quello di darsi alla penitenza. Pensa a ripensa, finalmente gli parve d’aver trovato una penitenza adeguata. Si sarebbe ritirato sulle più alte montagne che si intravedevano dalla villa di Pilato: i monti Verzegnis, e  Novinzola.
            Lì avrebbe vissuto da eremita.

            Così fece. Arrivato sul posto scoprì che dietro, verso sud, Il Novinzola si accoppia con il Pizzat ed entrambi si raccolgono in una bellissima conca. Un posto ideale per farne la sua valle di lacrime! Sul fianco, a mezza costa del Novinzola, individuò una grotta che la natura sembrava aver costruito nei millenni attraverso le rivoluzioni geologiche  proprio in attesa di qualcuno in cerca d’un riparo per pentirsi di qualcosa. Barabba vi si insediò e con estrema pazienza, usando la punta d’un chiodo che aveva raccolto sul Golgota, prese a scolpire la scena dei suoi incubi. Pensava che realizzarla all’esterno, fosse il modo migliore per togliersela dalla testa e ritrovare il suo equilibrio psichico.
                Così fu. Presero a frequentarlo i pastori che portavano le loro capre e pascolare nella valle, e lui si mise a raccontare dell’innocente morto in croce al suo posto. Divenne il primo evangelizzatore della Carnia. Morì nella grotta e i pastori lasciarono che il suo corpo si decomponesse come in un loculo all’aperto, mentre il suo spirito prendeva definitivamente possesso della grotta.
                La grotta nei secoli ha poi ospitato molti altri eremiti, sciamani e benandanti. Ma questa è un’altra storia!
                Da allora per tutti i secoli trascorsi  la grotta chiamata del Crist di Val, è diventata luogo di pellegrinaggio per ammirare la scultura della crocefissione che ha scolpito Barabba, per sentire la presenza del suo spirito, per sentirsi in comunione con il primo uomo salvato dalla morte di Cristo.

                Ci vanno gli Ebrei e, secondo la loro usanza quando visitano una tomba, depositano a ricordo dei sassolini. Ci vanno i Buddisti e lasciano le bandiere di preghiera tibetane.  Ci vanno i cristiani e lasciano dei piccoli crocefissi. Il più importante è quello che vi ha lasciato, nel 1980, Mons. Pietro Brollo, allora Vescovo ausiliare di Udine.
                Per i paesani di Verzegnis era il luogo tradizionale delle rogazioni per ottenere la pioggia.
                Me n’ha parlato la prima volta, e ha trasmesso anche a me  la suggestione della grotta del Crist di Val, l’amico Enore Deotto. Mi ricordava di quando bambino la mamma l’aveva costretto a salire più volte attraverso il sentiero che parte da Sella Chianzutan. “Un po’ a piedi scalzi, un po’ con le "dalbides", par no frujà i scarpèz…. Alle due di notte per essere alla grotta all’alba. Al ritmo delle invocazioni delle litanie, accompagnati dalla nenia delle Ave Marie del Rosario”.
                A quei tempi un anno di siccità significava per il paese un anno di miseria, di fame, di gente che moriva di stenti e d’inedia.

                Altri tempi! Ma perché perdere anche il ricordo, come si è purtroppo già persa persino la traccia del sentiero che dalla Casera di Val, recuperata come un’opera d’arte, porta alla grotta del Crist di Val?
             Perchè non ripartire dal riutilizzo della Casera restaurata per un progetto di valorizzazione turistica che recuperi la memoria storica del Crist di Val? Che si creda o meno sia opera di Barabba, qualcuno l'ha scolpito. Quando? Le date che vi si leggono possono riferirsi a delle visite o a delle permanenze successive, l'opera potrebbe essere molto antica. Comunque suggestiona ed emoziona, lascia un ricordo indelebile nel turista che ha avuto l'opportunità di visitarla.


venerdì 25 agosto 2017

Un giallo irrisolto a Tolmezzo


                Il maresciallo Anselmi si accasciò sul divano del salotto, come uno straccio sporco che la donna delle pulizie ha dimenticato fuori posto. Dalla porta aperta, continuava a fissare nell’atrio l’oggetto che l’aveva così terribilmente  sconvolto. Il fulmine finale d’un temporale spaventoso.
Era tutto iniziato la mattina del giorno prima, con una donna che denunciava la scomparsa del suo vicino di casa.
                “Scomparso come?”
                “Non ho detto scomparso. Ho detto che non lo si vede da una settimana...” aveva corretto seccata. Potrebbe anche essere morto,” aveva poi aggiunto, facendosi il segno della croce.
                Questa idea del possibile morto, l’aveva obbligato ad attivare le procedure del caso. Forzata la porta di  casa, dell’uomo non s’era trovata traccia. Viveva solo. Ma la cosa più strana era che nessuno sapeva nulla di lui. Viveva a Tolmezzo, da una ventina d’anni, ma non aveva rapporti con nessuno: né parenti, nè conoscenti.
                I vicini di casa lo chiamavano “lo svizzero”. Ma forse il nomignolo non aveva nulla a che vedere con la sua storia, era solo un sinonimo di “straniero”. All’anagrafe infatti,  era registrato come nato a Milano.
                “Ma avrà notato in questi anni qualcosa di particolare!” aveva insistito a chiedere.
                “Ripeto, non so nulla di lui. Posso solo dire di aver osservato che qualche volta fa delle passeggiate sullo Strabùt, la montagna dietro casa. Lo vedo partire da una parte e tornare dall’altra, e quindi immagino  faccia il sentiero-circuito che attraversa  la sella  di  Precefic.”
                Quel nome strano fu come un lampo. Quando l’avevano assegnato a comandare la stazione carabinieri di Tolmezzo  s’era dato a studiare la storia del luogo ed era rimasto colpito dalla leggenda di Precefic. Si diceva che nel pianoro che porta questo nome, a mezza costa del monte Strabut c’è la grotta degli Sbilfs. Sarebbero questi degli esseri che, a credere alle leggende, vivevano nei boschi prima dell’arrivo degli umani. Erano rimasti poi a convivere con gli uomini. Di norma invisibili, a volte si erano manifestati ad alcune persone, ma in forme sempre diverse. Per questo, anche mettendo assieme le varie leggende, non si capiva né chi fossero veramente né quale fosse la loro figura.
                Si era ripromesso più volte di salire a indagare su  questa grotta, per curiosità. Ora aveva un motivo di farlo, per servizio.
                Sulle falde del monte Stabut, è scesa nei secoli una frana. Assestandosi, a mezza costa, ha realizzato un piccolo pianoro. Ai margini. verso la roccia, anche se ostruito in parte da quale masso, non si può non notare l’ingresso di un antro. Non  una grotta naturale ma una galleria artificiale, scavata in una epoca imprecisata. Avrebbe dovuto farsi accompagnare da qualcuno, ma l’ innata curiosità l’aveva spinto a risalire in giornata, dopo essersi fornito d’un grossa torcia elettrica. L’idea di trovare lo “svizzero” morto dentro alla galleria, era poco più che una scusa per visitare finalmente la grotta della leggenda degli Sbilfs. Spesso però sono le circostanze a decidere le nostre azioni.
                S’era appena  inoltrato per qualche centinaio di metri, quando, incespicando in qualcosa, fu sul punto di cadere. Finì per appoggiare  la spalla alla parete di destra. Invece di sostenerlo, la parete si frantumò come se  fosse stata di cristallo. Con uno scatto, riuscì a riprendere l’equilibrio senza cadere, ma non riuscì a riprendersi dalla sorpresa, per ciò che gli capitò di vedere. Al solo tocco della spalla era andata in frantumi la parete alla quale si era appoggiato. Non tutta, ma la parte che pareva il tamponamento d’un piccolo vano, ricavato nella parete. Una sorta di loculo. Il termine gli venne alla mente, quando con la torcia, all’interno del vano illuminò un cadavere. Era quello d’una persona con la faccia d’un vecchio, ma con le dimensioni di un bambino. La stranezza maggiore stava nel come era stato ricomposto il cadavere: imbalsamato nella posizione dello yoga, con le gambe incrociate e le braccia conserti a tenere nel grembo un medaglione. L’aveva illuminato e l’aveva visto. Non aveva dubbi. Ma era stata solo una visione. In un attimoa il cadavere si era come dissolto. A terra c’era solo un grumo di polvere con sopra il medaglione. Aveva letto che qualcosa di analogo era capitato in qualche tomba in Egitto. Il contatto con l’aria può determinare una reazione che polverizza le mummie. Perplesso e preoccupato, per non dire spaventato, raccolse comunque il medaglione e decise di rinunciare a completare l’ispezione della grotta. Tornando sui suoi passi, facendo scivolare il fascio di luce sulla parete, si rese conto che tutta la parete era attrezzata con una fila di loculi. Alcuni aperti come quello che gli era capitato di aprire, intervallati da altri ancora chiusi.
                Non poteva evidentemente raccontare a nessuno ciò che gli era successo. Anche lui, a casa, se non avesse avuto tra le mani il medaglione, poteva pensare d’aver sognato. L’oggetto era alto una decina di centimetri, raffigurava un cuore. Il peso gli fece pensare fosse di bronzo. Su un lato era inciso  il disegno di una luna al primo quarto, sull’altro era graffita una scritta “mors”. Pur non conoscendo il latino, non ci potevano essere dubbi sul significato della parola. Non riusciva a immaginare che relazione ci potesse essere tra quella parola, la figura del quarto di luna e la forma dell’oggetto.  Tuttavia ciò che più l’aveva sorpreso era il fatto che il medaglione dava l’impressione di emanare calore. Sprigionava certamente qualche tipo di radiazione. Pericoloso? Si o no, ormai ce l’aveva in casa!
                Tutto incomprensibile! Come del resto il caso  della scomparsa dello “svizzero”. Pensò di mettersi almeno in regola con le procedure e i protocolli. Mise a rapporto che la donna gli aveva accennato alla località di Precefic, e quindi organizzò una squadra di quattro carabinieri, per un’ispezione alla località. “Ho letto da qualche parte che c’è una caverna e quindi attrezzatevi con delle torce elettriche,” ordinò ai suoi uomini.
                Arrivati sul pianoro di Precefic, fece in modo che scoprissero la galleria, senza far capire che lui c’era già stato. Lasciò che la squadra si inoltrasse e li seguì a distanza. Aveva due pile: con una faceva luce per evitare di incespicare come la volta precedente, con l’altra illuminava la parete che gli era parsa contenere i loculi. Cercava di verificare l’esattezza dell’intuizione che aveva avuto.
                “Oh mio Dio!” il grido spaventato dei suoi quattro carabinieri all’unissono rimbalzò sulle pareti della caverna con un eco terribile. La parola “Dio” riecheggiò rifrangendosi come un urlo uscito dalla gola della montagna, per respingere gli estranei. Immaginò che fosse  toccata anche ai sottoposti l’esperienza  vissuta lui il giorno prima e si affrettò a raggiungerli.
                Non avevano scoperto un nuovo loculo. Erano invece quasi incespicati in un cadavere. Orribilmente sfigurato. Ucciso con un fendente che gli aveva aperto la testa in due, come fosse stata un’ anguria. Dalle informazioni che aveva ricevuto dalla denunciante  su come era vestito, non c’erano dubbi: era il cadavere dello svizzero.
                Erano a non più di cento metri dell’imbocco della galleria. Il giorno prima si era inoltrato molto di più. Il cadavere non c’era. Era stato quindi ucciso durante la notte.
                “Non toccate nulla!” ordinò ai suoi. Restate di guardia mentre io vado a chiamare il Procuratore della Repubblica.
                Fu una giornata d’inferno quella che seguì!  Il Procuratore che voleva sapere ciò che non si poteva sapere. Prima nella casa dello svizzero, poi due volte in Precefic. Il Procuratore che voleva rendersi conto d’ogni particolare,  prima di autorizzare il recupero della salma. E poi tutti quei rapporti da scrivere, per essere sicuro di aver seguito le procedure, in quel primo caso di omicidio di cui doveva occuparsi in quella che gli era stata presentata  come una stazione tranquilla, con i vantaggi d’essere al  confine con l’Austria.
                Alla sera, quando, stremato, aprì la porta del suo appartamento, non pensava ad altro che al  letto. Invece la vera sorpresa doveva ancora arrivare… In mezzo all’atrio, in bella vista in un secchio di plastica, c’era una ascia sporca di sangue, come il secchio che la conteneva. Ripresosi dall’istintivo moto di orrore, si rese subito conto che quell’ascia insanguinata era la sua, quella che usava per spaccare le legna del caminetto.
                Per questo s’era lasciato cadere sul divano del salotto. Gli tornò in mente una delle leggende sugli Sbilfs. Quella di Birt che aveva il potere di ipnotizzare i suoi uomini per portarli a compiere i più efferati delitti, senza che avessero la coscienza di ciò che stavano facendo. Ripensò alle radiazioni che aveva avvertito sprigionate dal medaglione. L’accetta sporca di sangue era la sua. Non aveva dubbi, se l’era messa nello zaino il giorno prima quando era salito in Precefic. Pensava di dover aprirsi il sentiero per entrare nella grotta, ma non c’era stato bisogno. Aveva poi abbandonato lo zaino con la piccola mannaia in salotto. Nell’appartamento non c’erano segni di effrazione. Come aveva potuto quello strumento uscire di casa e rientrare insanguinato, dopo aver spaccato la testa allo “svizzero”? …
                Che fare? La domanda gli scrosciava nella mente con una cascata di possibili soluzioni senza via d’uscita. La riposta che gli veniva dalla sua passione per la fantascienza, lo portava a pensare  al  medaglione capace di trasmettere un ordine come quello delle leggende degli Sbilfs. Un ordine venuto dalla notte dei tempi per eliminare lo svizzero. Ma allora lo “svizzero” chi era veramente? Uno Sbilf in forma umana? Davanti al Procuratore però non avrebbe potuto usare risposte da fantascienza. Non gli restò che far sparire ogni cosa. Non poteva indagare su un omicidio commesso in proprio. Per chiudere il caso, e mettersi in pace con la coscienza, fu comunque tra i pochi a seguire il funerale de’ “lo svizzero”.


mercoledì 26 luglio 2017

Avrint di Verzegnis

AVRINT
                Fra le tante piacevoli sorprese che riserva al turista il territorio del Comune di Verzegnis, la più intrigante è senza dubbio quella di Malga Avrint. Vi si arriva dalla strada che porta a Sella Chianzutan. Qualche centinaio di metri dopo aver incrociato la fontana di Peraria, si trova una spiazzo dove lasciare l’automobile. Ci starebbe un parcheggio, che al momento non c’è. Come ci starebbe qualche indicazione  all’altezza dell’importanza della località che si sta per visitare. Ma senza rovinarsi la giornata ad annotare queste carenze, conviene prendere sulla sinistra una strada che sembra più l’accesso carraio ad uno chalet privato. Dopo pochi metri l’enigma si scioglie si lascia a sinistra l’accesso privato e si prosegue sulla carrareccia segnata come sentiero CAI 811.
                E’ una bella strada, facilmente transitabile anche con automobili normali non fuoristrada, e quindi diventa subito argomento per lo sfaticato, per qualche imprecazione contro i consiglieri regionali che con la legge 15 del 1991 hanno impedito il transito su strade come questa. La larghezza della strada consente di procedere in gruppo chiacchierando e il discorso cade subito sul fatto che la strada si presterebbe ad un utilizzo turistico più intensivo, ad esempio come percorso per bike assistite.
                Ci si mette un ora, con passo da gente di città, non allenata. Un percorso facile e divertente, con tratti in salita che si alternano a falsipiani, con lunghi tratti in ombra  e qualche passaggio soleggiato. Alla fine si emerge dal bosco all’improvviso e ci si trova su quello che in passato era il cjampèi della malga. Uno spiazzo erboso che mette in evidenza  l’edificio, ristrutturato e ricostruito in modo mirabile dai volontari di Verzegnis, usando il loro marmo rosso e quindi caratterizzando in modo inconfondibile la  malga.

La Carnia vista da Malga Aurint
                Bella la malga! Ma stupendo il panorama che vi si gode. Si ha l’impressione d’essere a un palco all’opera, avendo come teatro il rincorrersi delle montagne di tutta la Carnia. Non è un paesaggio che si vede soltanto ma è una immagine grandiosa che ti prende, ti entra nell’animo, ti fa partecipe come se per incanto diventassi un protagonista della scena del Tempo, che ha lavorato per ricostruire quell’alternarsi di vuoti e pieni, nell’alternarsi di valli e montagne.
                E il fascino del paesaggio  fa sembrare credibile la leggenda che ti è stata raccontata salendo e che ha il suo cuore nella suggestione che ti ha colto quando la strada attraversa il rio Faeit, in un pianoro dove grandi massi si alternano agli alberi. Se fossi sceso una decina di metri nel rio, avresti scoperto l’entrata della casa delle Agane. Nientemeno!
                Avrint è come tanti altri un nome sbagliato per effetto dell’ignoranza dei copisti nei secoli. AVRINT, era il termine esatto. Nei testi latini la V sta per U, e quindi Aurint dovrebbe essere l’interpretazione del nome. Arìnt in friulano sta per argento, aurint nel friulano antico si può presumere stesse per ” oro”.
                La leggenda precisa infatti che sulla montagna c’era, nella notte dei secoli, una miniera d’oro in mano ai Gnàus, così si chiamavano i folletti, gli sbilfs di questa montagna. Si cavava l’oro in alto sul torrente, di solito senza acqua. Quando le pioggie lo riattivavano, portava a valle le pepite più o meno grosse che i Gnàus avevano smosso, ma non erano riusciti a raccogliere.
L'entrata della casa delle Agane nel rio Faeit.
                Più sotto, come s’è visto c’è la casa delle Agane, che senza fare nessuna fatica potevano raccogliere l’oro sfuggito ai Gnàus. Quando questi ultimi si accorsero che le Agane avevano più oro di loro, che loro avevano faticato e le altre avevano raccolto, chiesero la restituzione del maltolto. Le Agane spiegarono di non aver tolto niente, che era stato l’oro a venire da loro, per cui ne ritenevano  legittimo il possesso.
                Visto che con le buone non si otteneva niente i Gnaus passarono alle maniere forti e decisero una spedizione, per invadere il territorio delle Agane. Non avevano fatto i conti però con i poteri magici delle fate d’acqua. Quando videro i Gnàus avvicinarsi alla loro casa, misero in atto le loro magie: all’istante  i Gnaus si trasformarono in sassi, più o meno grandi, a seconda della loro dimensione. Così sono rimasti pietrificati e si vedono ancora nei pianori a ridosso della casa delle Agane, sparsi, come in ordine sparso s’erano ripromessi di aggredire l’abitazione delle fate.
                La malga Aurint era la base d’appoggio dei Gnàus impegnati in miniera, lasciandola per ridiscendere a valle, e ripensando alla leggenda, non ci si può non fermare a cercare la casa delle Agane. Incrociando il rio Faeit , appena sotto la strada. E guardando i grossi blocchi di pietra sparsi nel bosco tutt’intorno, non si può non rivivere la  suggestione di quell’epica battaglia che ha visto i Gnaus pietrificati dalla magia delle fate.
               Come si sa, la storia dei Gnaus ha avuto un seguito!      Per secoli hanno chiesto perdono alle fate dell’acqua, promettendo che se avessero riavuto la vita sarebbero stati umili e sottomessi nei confronti delle donne. Alla fine le fate si sono lasciate impietosire  e, con una nuova magia, li lasciano rivivere ogni anno, ma sotto terra, sotto forma di rape: i più umili dei frutti della terra.
                Questo spiega il mistero che per anni ha angustiato le donne di Verzegnis, intente alla raccolta delle rape, o per meglio dire, dei “gnàus”. Strappando la rapa dalla terra si sente un leggero rumore, come un soffio. Nessuno sapeva darsi una spiegazione! Alla luce di questa leggenda invece, tutto è chiaro. E’ l’ultimo respiro dello “gnàu”, che venendo alla luce muore. Ma intanto ha lasciato alla rapa i suoi poteri magici. Per questo a Verzegnis si dice: “Una rapa al giorno toglie il medico di torno”. I “gnàus” non sono rape normali, sono  del genere “brassica rapa terapeutica” hanno dei poteri salutistici eccezionali: i poteri magici che   i “gnàus-sbilfs” vi hanno depositato.

venerdì 14 luglio 2017

Le Agane del passo Siera.


Le Agane del Siera (Las Aganes dal Sièra).

            C’erano una volta le fate. Dal latino fatum=destino, il loro nome stava a indicare degli esseri capaci di influire sul destino degli uomini. Esseri capaci di guidare gli uomini verso la felicità, in qualche modo personificazione  del desiderio di felicità degli uomini.
L'Agana della fortezza.
            In Carnia le fate si chiamavano Aganes, da àghe-acqua perché abitavano nei corsi d’acqua. Chi aveva avuto la ventura di incontrarle, s’era imbattuto con loro sempre vicino ad un ruscello. Uscivano nelle notti di luna piena ad asciugare le loro vesti al chiarore della luna.
            Poi ci fu il concilio di Trento. Si stabilì che la felicità viene solo da Dio, dalla sua Provvidenza. Si decise fosse  sacrilego immaginare l’esistenza di principi di felicità che si concretizzavano nella libertà individuale di ogni uomo al di fuori della Chiesa. Così le Agane che, come apportatrici  di felicità, prima  erano raffigurate come bellissime fanciulle, vennero considerate come brutte espressioni infernali, demoniache.
            Da bellissime fate divennero orribili streghe!...
            In questo modo avrebbero dovuto trasformarsi anche quelle della Val Pesarina. Popolavano la valle, nascoste nel rio Pesarina e nei tanti ruscelli che scendono dalle montagne ad alimentare il torrente. Si riunivano poi ogni notte a danzare sul passo tra la valle del Boite e la Val Pesarina, che da loro prendeva il nome di passo delle fate. Danzavano mosse dal vento che soffiava in un senso o nell’altro a seconda che a prevalere fosse Scirocco o Tramontana. Si ristoravano nel laghetto del passo e nelle pause andavano a dissetarsi alla fontana degli Sbilf, subito dietro alla casera della malga.     Una gorne(gronda)  alimentata dalla sorgente che prende l’acqua dal monte Siera, dove come si sa, sono corsi a nascondersi i folletti, per non incorrere nelle furie dell’Inquisizione.
             Hanno dato all’acqua che esce dalla loro montagna il potere di rinforzare e potenziare ciò che si ha. Per cui se la beve chi è malvagio, chi porta nel cuore il veleno della malvagità, finisce avvelenato: il veleno morale si potenzia sino a trasformarsi in veleno del fisico. Chi porta nel cuore sentimenti di generosità e amore invece, a ogni sorso, ha la sensazione gli si gonfi il cuore di felicità.
            Le agane pesarine avevano anche il potere di trasformarsi in animali e così di giorno le si poteva incontrare, senza rendersi conto che fossero loro, mentre si ascoltava estasiati il canto d’un uccello, o si ammirava la grazia della corsa d’un capriolo o d’un cervo, la furbizia d’uno scoiattolo, la forza d’un cinghiale, l’imponenza d’un orso.
            Trasformate in animali, ne conoscevano il linguaggio, e diventavano quindi interpreti tra il mondo animale e quello umano. Per questo la valle andava famosa per il rapporto intenso e profondo che legava animali e umani: due specie che condividevano lo stesso ambiente in collaborazione, non, come ora avviene, due specie nemiche, in contrapposizione continua.
            Per questo la valle era un parco naturale dove la gente veniva per godere dello stupore dell’incontro ravvicinato con gli animali,  per bearsi del  riecheggiare del canto di mille uccelli che inondava la valle, come il suono degli strumenti di una unica grande orchestra sinfonica.
            Si viveva felici in valle!
            Poi con il Concilio venne  l’Inquisizione, fu peccato credere alle fate. Si stabilì che non era vero che le Agane fossero fate, esseri benefici. La loro natura era invece quella delle streghe: esseri malefici. Il potere di trasformarsi in animali veniva dal demonio, non da Dio. Andava scacciato dalla valle il demonio, che l’aveva occupata insediandosi nella forma di queste Agane.
La cjalcinarie
            Vista la gravità della situazione, a fare gli scongiuri per trasformare  le fate  della Val Pesarina da Agànis in Strìes  salì personalmente il Patriarca di Aquileia Gregorio da Montelongo. Trasformate in streghe si sarebbero dovute bruciare, come si faceva negli altri paesi, il parroco del luogo, un ambientalista, suggerì che per evitare l’inquinamento atmosferico, in alternativa si potevano buttare nelle “cjalcinàrie”: l’effetto sarebbe stato lo stesso: il fuoco trasforma in fumo, la calce riduce in polvere.
            Ma, si sa,  la Val Pesarina è sempre stata una valle di anarchici, di controcorrente. Anche le fate erano in linea, anarchiche fino all’ultimo respiro,  opposero  una decisa resistenza, non accettarono di trasformarsi in streghe, preferirono la morte.
             A ricordo del loro potere di diventare animali, chiesero di poter restare dentro agli alberi, mantenendo l’immagine che avevano scelto da vive. E si vedono ancora, sul sentiero che porta al passo, ora trasformato in una carrareccia transitabile con i fuoristrada. Chi ci mette attenzione però, scopre ancora i resti dell’originario sentiero lastricato: il  “tròi das Agànis”.

             Sette di loro invece, le più anarchiche, non accettarono neppure questo compromesso.

Come sono rimaste.
            Si opposero e alla fine chi l’ha dura la vince,  l’ebbero vinta sul Patriarca, al punto di costringerlo  a venire  a patti. Ottennero di restare fate, accettando però di riapparire e riunirsi solo una volta alla settimana, di venerdì, la sera del sabba, come fanno  anche le streghe. Non più nei verdi prati del passo, ma sulla strada di accesso. Nascondendosi non più nel laghetto del passo ma nel rio.--
Il Boscùt da Aganis
            Da lì escono a danzare al limitare del ruscello, in un piccolo bosco di larici,  che da loro prende il nome di boschetto delle Agane, il boscùt da Agànis. Fino all’alba. Poi salgono con  il sole che inonda di luce la montagna e si nascondono tra le rocce delle Vette Nere. Così è stata chiamata la montagna  a  ricordare il lutto perché le tiene sepolte  per l’intera settimana.
            Vi entrano infilandosi in una piccola grotta che prende il nome di “buse das Aganis”.
La buse das Agànis
             Sono sette, iniziano le loro riunioni al canto d’un loro inno che dice:
            Si era le fate del passo,
            volevano che fossimo streghe,
            invece abbiam resistito…        Poi una alla volta si presentano:
Sono la fata della fede
Sono la fata della speranza
Sono la fata della carità
Sono la fata della prudenza
Sono la fata della giustizia
Sono la fata della fortezza
Sono la fata della temperanza
            La fata della prudenza ha i piedi girati all’indietro, per lei infatti è sempre meglio un passo indietro che un passo avanti. La fata della speranza ha invece le ali, sostiene che comunque non si deve mai smettere di volare in alto, almeno con la fantasia. Quella della fede ne ha quattro di ali, come le libellule, a dire che la fede vola ancora più in alto della speranza. Quella della giustizia gira tenendo in mano la stadera che s’usava un tempo anche nelle malghe. Quella della forza, ha i piedi a forma di zoccolo di cavallo, a ricordare l’aiuto che viene all’uomo da questo animale. Ma la forza va usata con giudizio, sostiene la fata della temperanza, vestita da filosofo o da mago che dir si voglia. C’è infine quella della carità che ha quattro braccia e quattro mani, sostiene che la felicità dell’uomo sta nel dare non nell’avere, “più dai e più ricevi” è il suo motto.
            Danzano in cerchio tenendosi per mano, a significare che nessuna di loro è in grado di dare la felicità, che per gli uomini la vera felicità nasce dal concerto e dalla sintesi dei loro poteri.
            Danzano e cantano per tutta la notte. Nelle pause s’appoggiano al tronco del larice da ognuna prescelto, che così assorbe al contatto i loro poteri. Per questo, anche di giorno, si vede la loro immagine sugli alberi. Per questo,  chi si ferma nel boschetto delle Agane, sente il loro influsso e torna a valle rigenerato.

            Dall’attacco del loro inno è derivato il nome che è stato dato  a quello che un tempo era il passo delle fate.

giovedì 27 aprile 2017

mercoledì 22 febbraio 2017

Marco Polo, veramente nato in Carnia?




                Nell’antefatto del mio romanzo “La vita di Marco Polo dalle memorie del nonno Luigi Polo” ho raccontato del ritrovamento tra il macabro e il rocambolesco del testo delle memorie di nonno Luigi. Ciò che mi ha colpito in quelle carte, e mi ha indotto alla pubblicazione, è stato l’aspetto umano del racconto, il come la vicenda umana di Luigi si intrecciava con la storia del Friuli e si dilatava nella storia della scoperta dell’Asia fatta dai Polo. Mi era parso trascurabile e comunque secondario il fatto che queste memorie potessero servire a sostenere che Marco Polo è nato in Carnia.
                Che fosse vero il racconto delle sue origini carniche, mi sembrava marginale rispetto a ciò che Marco ha fatto e raccontato al nonno. Che la Carnia potesse menar vanto d’aver dato i natali a Marco Polo, mi pareva insignificante: non cambia la situazione d’un territorio, il ricordare chi vi è nato. Così pensavo. E sbagliavo. Come mi è stato fatto notare quando il mio romanzo ha iniziato a essere letto.
                Il come abbia vissuto l’infanzia e la fanciullezza un personaggio serve a capire meglio il suo modo di pensare, il fatto che, cresciuto tra le montagne della Carnia,  abbia potuto diventare il più grande degli esploratori, può servire d’esempio e di stimolo ai carnici d’oggi.
                Sollecitato dagli stimoli degli amici, mi sono così ricordato d’un foglietto che era allegato alle memorie, ed a cui non avevo dato alcun peso.
                Era il foglietto con l’immagine d’uno stemma, con nel retro la descrizione dell’origine dello stemma stesso. Non ci avevo dato peso anche per la banalità dello stemma che mi aveva fatto pensare a un passatempo di nonno Luigi. Quando, facendo delle ricerche su Marco Polo, sempre per colpa delle sollecitazioni degli amici, mi sono imbattuto nello stemma familiare di Marco, mi sono reso conto invece dell’ importanza del foglietto: lo stemma che, a prima vista, m’era parso banale, era quello che gli storici attribuiscono a Marco.
                Ho scoperto così che la banalità od originalità che dir si voglia dello stemma, finisce per essere una conferma della veridicità delle memorie del nonno. Il foglietto che sono riuscito a rintracciare da un lato porta il disegno di uno stemma con uno sfondo rosso attraversato diagonalmente da sinistra a destra, da una larga striscia gialla sulla  quale sembrano salire tre uccelli neri con la particolarità del becco e delle zampe rosse.

                Dietro con la calligrafia di Luigi Polo che ormai conoscevo c’era scritto che Marco diventato ormai ricco e famoso aveva pensato di dotarsi d’uno stemma. Al consiglio di prendersi quello di famiglia, aveva  replicato disegnando di suo pugno quello dei tre uccelli. All’obiezione del nonno secondo cui si trattava d’una soluzione poco araldica, aveva ribattuto che le tre Pole rappresentavano loro tre, Luigi, Nicolò e Marco, in successione, come uccelli pronti a spiccare il volo verso nuovi orizzonti.               
                Un amico ornitologo a cui mi sono rivolto per un consulto mi ha detto subito che, senza ombra di dubbio gli uccelli sono delle Coracia di montagna, o Gracchio corallino (Pyrrhocorax graculus) che nidifica, a almeno nidificava sulle nostre montagne. Non capivo ancora però, per quale forzatura nel documento questi Gracchi, venissero chiamati Pole, per giustificare l’identificazione con il cognome Polo. La spiegazione m’è venuta consultando il vocabolario friulano del Pirona. Questi uccelli in friulano si chiamamo Çuvrin o Còrin ma anche Pòle
                Confesso che alla scoperta ho provato una forte emozione. Non tanto per la conferma che mi veniva dal nome quanto dal fatto di sentirmi in sintonia con Marco per la simpatia per questi uccelli. Non li ho conosciuti nella variante del gracco corallino che, a quanto mi dice l’ornitologo, si sono trasferiti più in alta montagna, ma in quella meno nobile del gracco alpino. Ma il comportamento della specie è lo stesso ed ha colpito me giovane, al punto di suggerirmi alcuni versi per una poesia, come, credo, abbia  colpito Marco.
                Arrivano alla sera in stormi disordinati, come in una processione alla quale partecipano anche ragazzi che incapaci di stare al passo, ora sbandano, s’allontanano o rallentano, per poi rientrare e rimettersi in fila. E come i genitori rimproverano i ragazzi così loro si lanciano richiami sguaiata. Il loro gracchiare alla fine si perde nel bosco dietro al paese, ove si nascondono per passare la notte. Come in una casa nella quale  il sopraggiungere  del sonno spegne le ultime parole dei bambini, gli ultimi richiami dei grandi, e lascia calare la quiete.
                Ripartono al mattino allo stesso modo, riformando lo stesso stormo disordinato, e vanno a trascorrere la giornata non si sa dove. E’ questo andare non si sa dove che, credo, ha colpito Marco, come ha colpito me. Ha pensato che questi uccelli potessero rappresentare la sua vita meglio di qualsiasi citazione araldica, ed ha riunito in uno stemma le tre generazioni che hanno segnato per la sua famiglia il passaggio dalla Carnia alla scoperta del mondo.
                L’aver voluto nello stemma questi uccelli conferma la passione per la caccia che Marco dimostra di avere quando descrive le cacce dei Mongoli e gli incontri con la fauna esotica. Nelle sue parole si sente l’emozione di chi ha praticato la caccia e l’uccellagione. La stessa passione che sentivamo, ragazzi di paese, quando il nostro inizio dell’anno scolastico veniva disturbato dalla coincidenza con il passo degli uccelli migratori. Come oggi, i ragazzi prima di scuola passano per i giochi dello smartphone, così noi passavamo per controllare i rudimentali impianti con le panie, gli archetti e le trappole. C’era un’ emozione strana: si mirava alla morte degli uccelli, ma si entrava in una sorta di sintonia con loro. Si volava con loro nel loro avvicinarsi, nella speranza che si lasciassero attirare dalla suggestione dei nostri richiami che finissero per cadere nelle nostre trappole. Più che di emozione si poteva parlare d’una vibrazione che prendeva il nostro animo che si trasmetteva al nostro corpo, facendoci vivere un’ansia fisica e spirituale allo stesso tempo.
                Ebbene! Mi è parso di ritrovare questa stessa vibrazione nei racconti di Marco Polo. Una identità di sensazioni e di emozioni che mi conferma, oltre al fatto dello stemma, che l’ipotesi di Marco Polo nato in Carnia, dal ceppo dei Polo da cui derivano anche le mie trisavole, può essere ben più che una ipotesi.

 

martedì 10 gennaio 2017

La vita di Marco Polo dalle memorie del nonno Luigi Polo.

Per ascoltare la presentazione e farti convincere alla lettura!
Clicca qui sotto!
https://www.youtube.com/watch?v=HJaQ2k0p0kM&t=33s

Se non sei ancora convinto, puoi leggere questa presentazione:        

 “Descrivi il tuo villaggio e sarai universale” scriveva Tolstoj. “Vivi il tuo villaggio e sarai globale” può essere considerato il motto di vita di Luigi Polo, il protagonista di questo nuovo romanzo. Non si muove per tutta la vita dal suo castello alle falde del monte Diverdalce, a ridosso di Tolmezzo, tra Cazzaso e Fusea. (Ove c’è ora il cimitero dei due paesi, forse ricavato dal recinto del vecchio maniero...). Ma è uno stanziale in una famiglia di uccelli migratori. Suo fratello Marco raggiunge Venezia e porta il nome dei Polo sulla laguna, l’altro, Erminio si trasferisce e porta il nome di Polo ai Forni Savorgnani.
 Ai due capi della filiera del legname, che serve a Venezia per le sue galere, i due fanno fortuna.
                Luigi ama vivere guardando ogni giorno gli stessi orizzonti. I suoi cercano invece orizzonti ogni giorno diversi. Dal commercio del legname passano a quello più redditizio delle spezie, spostando la base dei loro commerci a Soldaia sul Mar Nero. Ma non bastava ancora! Una sera nel castello del Gastaldo di Tolmezzo il figlio Nicolò ebbe l’opportunità di sentire il racconto dell’avventura di Giovanni da Pian del Carpine mandato dal Papa a prendere contatto con i Mongoli. L’idea di seguire le orme del frate, divenne il  sogno e l’ideale di vita di Nicolò. Non gli bastò più il Mediterraneo. Per chi si muove, l’orizzonte si sposta sempre più in là; c’era tutta l’Asia da scoprire, fin là dove si favoleggiava ci fosse il paradiso terrestre.
                Nel frattempo però gli era arrivato un figlio che aveva chiamato Marco. Sarebbe stato giusto rinunciare ai nuovi orizzonti per coltivare la famiglia. Ma si inventò la soluzione classica: affidò moglie e figlio al padre, che non volendo schiodarsi dal suo castello in Carnia, sarebbe stato l’ideale baby sitter.
                Gli si presentò una volta anche l’occasione di mandare a salutare la famiglia. Guglielmo di Robruck un altro frate che su incarico del re santo Luigi IX era stato dal Gran Khan per verificare se poteva farselo alleato nella guerra contro i Mussulmani, risalendo il Danubio per tornare in Francia, aveva accettato di fare una deviazione per Passo Monte Croce Carnico. Al sentire il racconti di questo frate, anche il giovane Marco si entusiasmò. Quando al padre riuscì di rientrare a Venezia e fare una scappata a salutare la famiglia in Carnia, gli si incollò addosso.  Nicolò  fu costretto così a portarsi al seguito il figlio, in una nuova spedizione in Asia, anche se aveva solo 17 anni.
                Furono anni di sofferenza per il conte Luigi, ormai vecchio, che aveva allevato quel nipote come se fosse suo figlio!... Solo dopo tremilatrecentottantacinque giorni, gli arrivò la prima  lettera, e solo dopo 17 anni poté rivedere il nipote…
                Le distrazioni culturali non gli mancavano: c’erano i domenicani che facevano tappa ad Alzeri andando dall’Italia alla Germania, per discutere di teologia. Aveva avuto persino l’occasione di accompagnare il giovane poeta Dante Alighieri a visitare le sabbie mobili del Moscardo. Seguiva anche le vicende della politica locale con il patriarca Raimondo della Torre. Ma l’angoscia al sapere figlio e nipote in mezzo agli antropofagi dell’Asia non gli dava pace. L’ansia l’aveva portato persino a credere di poter parlare con i suoi attraverso la luna…
                Si può quindi immaginare con quale gioia abbia accolto Marco al ritorno. Con quale entusiasmo abbia assorbito i racconti che il nipote, diventato ormai un uomo maturo, gli andava facendo delle mirabolanti cose che aveva visto e delle originali esperienze che aveva potuto fare in Asia.   Come poteva fare a meno di scrivere e lasciare memoria di ciò che gli veniva raccontando il nipote?
             Sono nate così, le sue memorie, che, nella prefazione, sostengo d’aver trovato proprio nel cimitero sorto al posto del castello.
            Alle memorie del racconto di Marco, Luigi ha aggiunto anche quelle che aveva precedentemente sentito da Giovanni da Pian del Carpine e da Guglielmo di Robruck. Per questo le sue memorie, anticipano il racconto che Marco Polo farà a Rustichello da Pisa che diventeranno “Il Milione”. Allo stesso tempo  lo scritto del vecchio Luigi Polo  è anche una sintesi della storia della scoperta dell’Asia nel XIII secolo.
                Scoperta di valore storico mondiale ma inserita nella storia d’un piccolo villaggio, nella storia della Carnia sotto i Patriarchi, nel Duecento.  
              Una provocazione la mia, per ricordare che dalle periferie si può vedere il mondo.
              La vita di Marco Polo che sarebbe nato in Carnia, come romanzo del “glocale”. Le memorie del nonno Luigi metafora di come  vivendo alle falde d’un monte della Carnia, si possa vivere la scoperta del mondo.
                In attesa che i distributori nostrani si facciano carico di farlo arrivare nelle librerie locali, Il libro è acquistabile con il sistema dell’e-commerce sia  nella soluzione cartacea che come e-book nelle biblioteche online di AMAZON, MONDADORI STORE  e IBS e al sito di una piccola ma intraprendente casa editrice che ha accettato di scommettere su una opera così inusuale per le provocazioni che contiene, a cominciare da quella sulla nascita di Marco Polo in Carnia.