Le Agane del Siera (Las Aganes
dal Sièra).
C’erano una volta le fate. Dal latino fatum=destino, il
loro nome stava a indicare degli esseri capaci di influire sul destino degli
uomini. Esseri capaci di guidare gli uomini verso la felicità, in qualche modo personificazione
del desiderio di felicità degli uomini.
L'Agana della fortezza. |
In Carnia le fate si chiamavano Aganes, da àghe-acqua perché abitavano nei corsi
d’acqua. Chi aveva avuto la ventura di incontrarle, s’era imbattuto con loro
sempre vicino ad un ruscello. Uscivano nelle notti di luna piena ad asciugare
le loro vesti al chiarore della luna.
Poi ci fu il concilio di Trento. Si stabilì che la
felicità viene solo da Dio, dalla sua Provvidenza. Si decise fosse sacrilego immaginare l’esistenza di principi
di felicità che si concretizzavano nella libertà individuale di ogni uomo al di
fuori della Chiesa. Così le Agane che, come apportatrici di felicità, prima erano raffigurate come bellissime fanciulle,
vennero considerate come brutte espressioni infernali, demoniache.
Da bellissime fate divennero orribili streghe!...
In questo modo avrebbero dovuto trasformarsi anche quelle
della Val Pesarina. Popolavano la valle, nascoste nel rio Pesarina e nei tanti
ruscelli che scendono dalle montagne ad alimentare il torrente. Si riunivano
poi ogni notte a danzare sul passo tra la valle del Boite e la Val Pesarina,
che da loro prendeva il nome di passo delle fate. Danzavano mosse dal vento che
soffiava in un senso o nell’altro a seconda che a prevalere fosse Scirocco o
Tramontana. Si ristoravano nel laghetto del passo e nelle pause andavano a
dissetarsi alla fontana degli Sbilf, subito dietro alla casera della malga. Una gorne(gronda)
alimentata dalla sorgente che prende
l’acqua dal monte Siera, dove come si sa, sono corsi a nascondersi i folletti,
per non incorrere nelle furie dell’Inquisizione.
Hanno dato
all’acqua che esce dalla loro montagna il potere di rinforzare e potenziare ciò
che si ha. Per cui se la beve chi è malvagio, chi porta nel cuore il veleno
della malvagità, finisce avvelenato: il veleno morale si potenzia sino a
trasformarsi in veleno del fisico. Chi porta nel cuore sentimenti di generosità
e amore invece, a ogni sorso, ha la sensazione gli si gonfi il cuore di
felicità.
Le agane pesarine avevano anche il potere di trasformarsi
in animali e così di giorno le si poteva incontrare, senza rendersi conto che
fossero loro, mentre si ascoltava estasiati il canto d’un uccello, o si ammirava
la grazia della corsa d’un capriolo o d’un cervo, la furbizia d’uno scoiattolo,
la forza d’un cinghiale, l’imponenza d’un orso.
Trasformate in animali, ne conoscevano il linguaggio, e
diventavano quindi interpreti tra il mondo animale e quello umano. Per questo
la valle andava famosa per il rapporto intenso e profondo che legava animali e
umani: due specie che condividevano lo stesso ambiente in collaborazione, non,
come ora avviene, due specie nemiche, in contrapposizione continua.
Per questo la valle era un parco naturale dove la gente
veniva per godere dello stupore dell’incontro ravvicinato con gli animali, per bearsi del riecheggiare del canto di mille uccelli che
inondava la valle, come il suono degli strumenti di una unica grande orchestra
sinfonica.
Si viveva felici in valle!
Poi con il Concilio venne l’Inquisizione, fu peccato credere alle fate.
Si stabilì che non era vero che le Agane fossero fate, esseri benefici. La loro
natura era invece quella delle streghe: esseri malefici. Il potere di
trasformarsi in animali veniva dal demonio, non da Dio. Andava scacciato dalla
valle il demonio, che l’aveva occupata insediandosi nella forma di queste
Agane.
La cjalcinarie |
Vista la gravità della situazione, a fare gli scongiuri
per trasformare le fate della Val Pesarina da Agànis in Strìes salì
personalmente il Patriarca di Aquileia Gregorio da Montelongo. Trasformate in
streghe si sarebbero dovute bruciare, come si faceva negli altri paesi, il
parroco del luogo, un ambientalista, suggerì che per evitare l’inquinamento
atmosferico, in alternativa si potevano buttare nelle “cjalcinàrie”: l’effetto
sarebbe stato lo stesso: il fuoco trasforma in fumo, la calce riduce in
polvere.
Ma, si sa, la Val
Pesarina è sempre stata una valle di anarchici, di controcorrente. Anche le
fate erano in linea, anarchiche fino all’ultimo respiro, opposero una decisa resistenza, non accettarono di
trasformarsi in streghe, preferirono la morte.
A ricordo del loro
potere di diventare animali, chiesero di poter restare dentro agli alberi, mantenendo
l’immagine che avevano scelto da vive. E si vedono ancora, sul sentiero che
porta al passo, ora trasformato in una carrareccia transitabile con i
fuoristrada. Chi ci mette attenzione però, scopre ancora i resti
dell’originario sentiero lastricato: il “tròi
das Agànis”.
Sette di loro invece, le più anarchiche, non accettarono
neppure questo compromesso.Come sono rimaste. |
Si opposero e alla fine chi l’ha dura la vince, l’ebbero vinta sul Patriarca, al punto di costringerlo
a venire a patti. Ottennero di restare fate, accettando
però di riapparire e riunirsi solo una volta alla settimana, di venerdì, la
sera del sabba, come fanno anche le
streghe. Non più nei verdi prati del passo, ma sulla strada di accesso. Nascondendosi
non più nel laghetto del passo ma nel rio.--
Il Boscùt da Aganis |
Da lì escono a danzare al limitare del ruscello, in un piccolo
bosco di larici, che da loro prende il
nome di boschetto delle Agane, il boscùt
da Agànis. Fino all’alba. Poi salgono con
il sole che inonda di luce la montagna e si nascondono tra le rocce delle
Vette Nere. Così è stata chiamata la montagna a
ricordare il lutto perché le tiene sepolte per l’intera settimana.
Vi entrano infilandosi in una piccola grotta che prende
il nome di “buse das Aganis”.
La buse das Agànis |
Sono sette,
iniziano le loro riunioni al canto d’un loro inno che dice:
Si era le fate del passo,
volevano che fossimo streghe,
invece
abbiam resistito… Poi una alla
volta si presentano:
Sono la fata della fede
Sono la fata della speranza
Sono la fata della carità
Sono la fata della prudenza
Sono la fata della giustizia
Sono la fata della fortezza
Sono la fata della temperanza
La fata della prudenza ha i piedi girati all’indietro,
per lei infatti è sempre meglio un passo indietro che un passo avanti. La fata
della speranza ha invece le ali, sostiene che comunque non si deve mai smettere
di volare in alto, almeno con la fantasia. Quella della fede ne ha quattro di ali,
come le libellule, a dire che la fede vola ancora più in alto della speranza.
Quella della giustizia gira tenendo in mano la stadera che s’usava un tempo
anche nelle malghe. Quella della forza, ha i piedi a forma di zoccolo di
cavallo, a ricordare l’aiuto che viene all’uomo da questo animale. Ma la forza
va usata con giudizio, sostiene la fata della temperanza, vestita da filosofo o
da mago che dir si voglia. C’è infine quella della carità che ha quattro
braccia e quattro mani, sostiene che la felicità dell’uomo sta nel dare non
nell’avere, “più dai e più ricevi” è il suo motto.
Danzano in cerchio tenendosi per mano, a significare che
nessuna di loro è in grado di dare la felicità, che per gli uomini la vera felicità
nasce dal concerto e dalla sintesi dei loro poteri.
Danzano e cantano per tutta la notte. Nelle pause
s’appoggiano al tronco del larice da ognuna prescelto, che così assorbe al
contatto i loro poteri. Per questo, anche di giorno, si vede la loro immagine
sugli alberi. Per questo, chi si ferma
nel boschetto delle Agane, sente il loro influsso e torna a valle rigenerato.
Dall’attacco del loro inno è derivato il nome che è stato
dato a quello che un tempo era il passo
delle fate.
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