Il maresciallo Anselmi si accasciò sul divano del
salotto, come uno straccio sporco che la donna delle pulizie ha dimenticato
fuori posto. Dalla porta aperta, continuava a fissare nell’atrio l’oggetto che
l’aveva così terribilmente sconvolto. Il
fulmine finale d’un temporale spaventoso.
Era tutto iniziato la mattina
del giorno prima, con una donna che denunciava la scomparsa del suo vicino di
casa.
“Scomparso come?”
“Non ho detto scomparso. Ho detto che non lo si vede
da una settimana...” aveva corretto seccata. Potrebbe anche essere morto,” aveva
poi aggiunto, facendosi il segno della croce.
Questa idea del possibile morto, l’aveva obbligato ad
attivare le procedure del caso. Forzata la porta di casa, dell’uomo non s’era trovata traccia.
Viveva solo. Ma la cosa più strana era che nessuno sapeva nulla di lui. Viveva
a Tolmezzo, da una ventina d’anni, ma non aveva rapporti con nessuno: né
parenti, nè conoscenti.
I vicini di casa lo chiamavano “lo svizzero”. Ma
forse il nomignolo non aveva nulla a che vedere con la sua storia, era solo un
sinonimo di “straniero”. All’anagrafe infatti, era registrato come nato a Milano.
“Ma avrà notato in questi anni qualcosa di
particolare!” aveva insistito a chiedere.
“Ripeto, non so nulla di lui. Posso solo dire di aver
osservato che qualche volta fa delle passeggiate sullo Strabùt, la montagna
dietro casa. Lo vedo partire da una parte e tornare dall’altra, e quindi
immagino faccia il sentiero-circuito che
attraversa la sella di Precefic.”
Quel nome strano fu come un lampo. Quando l’avevano
assegnato a comandare la stazione carabinieri di Tolmezzo s’era dato a studiare la storia del luogo ed
era rimasto colpito dalla leggenda di Precefic. Si diceva che nel pianoro che
porta questo nome, a mezza costa del monte Strabut c’è la grotta degli Sbilfs. Sarebbero
questi degli esseri che, a credere alle leggende, vivevano nei boschi prima
dell’arrivo degli umani. Erano rimasti poi a convivere con gli uomini. Di norma
invisibili, a volte si erano manifestati ad alcune persone, ma in forme sempre
diverse. Per questo, anche mettendo assieme le varie leggende, non si capiva né
chi fossero veramente né quale fosse la loro figura.
Si era ripromesso più volte di salire a indagare su questa grotta, per curiosità. Ora aveva un
motivo di farlo, per servizio.
Sulle falde del monte Stabut, è scesa nei secoli una
frana. Assestandosi, a mezza costa, ha realizzato un piccolo pianoro. Ai
margini. verso la roccia, anche se ostruito in parte da quale masso, non si può
non notare l’ingresso di un antro. Non una
grotta naturale ma una galleria artificiale, scavata in una epoca imprecisata.
Avrebbe dovuto farsi accompagnare da qualcuno, ma l’ innata curiosità l’aveva
spinto a risalire in giornata, dopo essersi fornito d’un grossa torcia
elettrica. L’idea di trovare lo “svizzero” morto dentro alla galleria, era poco
più che una scusa per visitare finalmente la grotta della leggenda degli
Sbilfs. Spesso però sono le circostanze a decidere le nostre azioni.
S’era appena inoltrato per qualche centinaio di metri,
quando, incespicando in qualcosa, fu sul punto di cadere. Finì per appoggiare la spalla alla parete di destra. Invece di
sostenerlo, la parete si frantumò come se fosse stata di cristallo. Con uno scatto, riuscì
a riprendere l’equilibrio senza cadere, ma non riuscì a riprendersi dalla
sorpresa, per ciò che gli capitò di vedere. Al solo tocco della spalla era
andata in frantumi la parete alla quale si era appoggiato. Non tutta, ma la
parte che pareva il tamponamento d’un piccolo vano, ricavato nella parete. Una
sorta di loculo. Il termine gli venne alla mente, quando con la torcia,
all’interno del vano illuminò un cadavere. Era quello d’una persona con la
faccia d’un vecchio, ma con le dimensioni di un bambino. La stranezza maggiore
stava nel come era stato ricomposto il cadavere: imbalsamato nella posizione
dello yoga, con le gambe incrociate e le braccia conserti a tenere nel grembo
un medaglione. L’aveva illuminato e l’aveva visto. Non aveva dubbi. Ma era stata
solo una visione. In un attimoa il cadavere si era come dissolto. A terra c’era
solo un grumo di polvere con sopra il medaglione. Aveva letto che qualcosa di
analogo era capitato in qualche tomba in Egitto. Il contatto con l’aria può determinare
una reazione che polverizza le mummie. Perplesso e preoccupato, per non dire
spaventato, raccolse comunque il medaglione e decise di rinunciare a completare
l’ispezione della grotta. Tornando sui suoi passi, facendo scivolare il fascio
di luce sulla parete, si rese conto che tutta la parete era attrezzata con una
fila di loculi. Alcuni aperti come quello che gli era capitato di aprire,
intervallati da altri ancora chiusi.
Non poteva evidentemente raccontare a nessuno ciò che
gli era successo. Anche lui, a casa, se non avesse avuto tra le mani il
medaglione, poteva pensare d’aver sognato. L’oggetto era alto una decina di
centimetri, raffigurava un cuore. Il peso gli fece pensare fosse di bronzo. Su
un lato era inciso il disegno di una
luna al primo quarto, sull’altro era graffita una scritta “mors”. Pur non
conoscendo il latino, non ci potevano essere dubbi sul significato della parola.
Non riusciva a immaginare che relazione ci potesse essere tra quella parola, la
figura del quarto di luna e la forma dell’oggetto. Tuttavia ciò che più l’aveva sorpreso era il
fatto che il medaglione dava l’impressione di emanare calore. Sprigionava
certamente qualche tipo di radiazione. Pericoloso? Si o no, ormai ce l’aveva in
casa!
Tutto incomprensibile! Come del resto il caso della scomparsa dello “svizzero”. Pensò di
mettersi almeno in regola con le procedure e i protocolli. Mise a rapporto che
la donna gli aveva accennato alla località di Precefic, e quindi organizzò una
squadra di quattro carabinieri, per un’ispezione alla località. “Ho letto da
qualche parte che c’è una caverna e quindi attrezzatevi con delle torce
elettriche,” ordinò ai suoi uomini.
Arrivati sul pianoro di Precefic, fece in modo che
scoprissero la galleria, senza far capire che lui c’era già stato. Lasciò che
la squadra si inoltrasse e li seguì a distanza. Aveva due pile: con una faceva
luce per evitare di incespicare come la volta precedente, con l’altra
illuminava la parete che gli era parsa contenere i loculi. Cercava di verificare
l’esattezza dell’intuizione che aveva avuto.
“Oh mio Dio!” il grido spaventato dei suoi quattro
carabinieri all’unissono rimbalzò sulle pareti della caverna con un eco
terribile. La parola “Dio” riecheggiò rifrangendosi come un urlo uscito dalla
gola della montagna, per respingere gli estranei. Immaginò che fosse toccata anche ai sottoposti l’esperienza vissuta lui il giorno prima e si affrettò a
raggiungerli.
Non avevano scoperto un nuovo loculo. Erano invece
quasi incespicati in un cadavere. Orribilmente sfigurato. Ucciso con un
fendente che gli aveva aperto la testa in due, come fosse stata un’ anguria.
Dalle informazioni che aveva ricevuto dalla denunciante su come era vestito, non c’erano dubbi: era il
cadavere dello svizzero.
Erano a non più di cento metri dell’imbocco della
galleria. Il giorno prima si era inoltrato molto di più. Il cadavere non c’era.
Era stato quindi ucciso durante la notte.
“Non toccate nulla!” ordinò ai suoi. Restate di
guardia mentre io vado a chiamare il Procuratore della Repubblica.
Fu una giornata d’inferno quella che seguì! Il Procuratore che voleva sapere ciò che non
si poteva sapere. Prima nella casa dello svizzero, poi due volte in Precefic. Il
Procuratore che voleva rendersi conto d’ogni particolare, prima di autorizzare il recupero della salma.
E poi tutti quei rapporti da scrivere, per essere sicuro di aver seguito le
procedure, in quel primo caso di omicidio di cui doveva occuparsi in quella che
gli era stata presentata come una
stazione tranquilla, con i vantaggi d’essere al confine con l’Austria.
Alla sera, quando, stremato, aprì la porta del suo
appartamento, non pensava ad altro che al letto. Invece la vera sorpresa doveva ancora
arrivare… In mezzo all’atrio, in bella vista in un secchio di plastica, c’era
una ascia sporca di sangue, come il secchio che la conteneva. Ripresosi
dall’istintivo moto di orrore, si rese subito conto che quell’ascia
insanguinata era la sua, quella che usava per spaccare le legna del caminetto.
Per questo s’era lasciato cadere sul divano del
salotto. Gli tornò in mente una delle leggende sugli Sbilfs. Quella di Birt che
aveva il potere di ipnotizzare i suoi uomini per portarli a compiere i più
efferati delitti, senza che avessero la coscienza di ciò che stavano facendo.
Ripensò alle radiazioni che aveva avvertito sprigionate dal medaglione.
L’accetta sporca di sangue era la sua. Non aveva dubbi, se l’era messa nello
zaino il giorno prima quando era salito in Precefic. Pensava di dover aprirsi
il sentiero per entrare nella grotta, ma non c’era stato bisogno. Aveva poi
abbandonato lo zaino con la piccola mannaia in salotto. Nell’appartamento non
c’erano segni di effrazione. Come aveva potuto quello strumento uscire di casa
e rientrare insanguinato, dopo aver spaccato la testa allo “svizzero”? …
Che fare? La domanda gli scrosciava nella mente con
una cascata di possibili soluzioni senza via d’uscita. La riposta che gli
veniva dalla sua passione per la fantascienza, lo portava a pensare al medaglione capace di trasmettere un ordine
come quello delle leggende degli Sbilfs. Un ordine venuto dalla notte dei tempi
per eliminare lo svizzero. Ma allora lo “svizzero” chi era veramente? Uno Sbilf
in forma umana? Davanti al Procuratore però non avrebbe potuto usare risposte
da fantascienza. Non gli restò che far sparire ogni cosa. Non poteva indagare
su un omicidio commesso in proprio. Per chiudere il caso, e mettersi in pace con
la coscienza, fu comunque tra i pochi a seguire il funerale de’ “lo svizzero”.
2 commenti:
Molto avvincente e fantastica ambientazione. Forse un po' troppo frettoloso il finale...
Concordo con la critica sul finale.
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