venerdì 28 ottobre 2011
Cazzaso nella guerra partigiana.
Per chi non conoscesse la Carnia, Fusea e Cazzaso sono due paesi, frazioni del Comune di Tolmezzo, posti su un pianoro a mezza costa del monte Diverdalce, alle spalle di Tolmezzo per chi arriva da Udine. Due paesi fratelli, si potrebbe dire, perché nati e cresciuti nello stesso ambiente naturale. Ma, ma come spesso accade anche tra fratelli, i due paesi non sono mai andati d'accordo fra loro. Nei secoli hanno sempre cercato di enfatizzare ciò che li divideva, invece di apprezzare ciò che li univa. Fino a diversificare anche la parlata. A Fusea si fanno finire le parole in “a” per far dispetto a quelli di Cazzaso, che le fanno terminare in “e”. E viceversa!
Il Comune di Tolmezzo per risparmiare ha costruito un unico cimitero a metà strada fra i due paesi ma gli abitanti se l’erano diviso:metà era riservato ai morti di Cazzaso e metà a quelli di Fusea. Il giorno dei morti i fuseani ricordavano i loro defunti al pomeriggio, i cazzaini alla sera. Con il parroco di Fusea che al pomeriggio dava la schiena alle tombe dei cazzaini mentre quello di Cazzaso ricambiava il gesto alla sera, pregando con dietro alla schiena le tombe dei fuseani.
Sarà perché ora si sente meno lo spirito d'identità dei paesi, detto anche spirito di campanile, sarà perché c'è un unico prete officiante per i due paesi, la tradizione delle due funzioni religiose si è mantenuta, ma il prete si mette ora in mezzo, tra i due campi di tombe, anche perché nel frattempo il Comune ha deciso di unificare il cimitero, ed ora i morti fuseani e cazzaini vengono mescolati alla rinfusa, secondo un unico criterio di rotazione.
L’ultima volta che i due paesi hanno trovato l’occasione di diversificarsi fino a farsi del male è stato durante l’ultima guerra nel 1944, durante la lotta partigiana. Nell’estate di quell’anno a Tolmezzo c'erano i tedeschi mentre la Carnia, a dire dei partigiani, era stata liberata ed era in mano loro, che ormai stringevano d’assedio il capoluogo. Le falde del Diverdalce erano quindi diventate strategiche per tenere la situazione sotto controllo.
I fuseani, (gente che sapeva andare al sodo), se la filavano con i tedeschi, a Cazzaso c’era invece un presidio partigiano. Se la filavano, forse è troppo, non vorrei che suonasse offensivo. In realtà, intelligentemente, la latteria aveva fatto un accordo per vendere il latte ai tedeschi. Ogni giorno salivano da Tolmezzo due militari a prendere le taniche del latte che pagavano regolarmente. La latteria di Cazzaso invece veniva visitata regolarmente dei partigiani che si rifornivano a piacimento, con la minaccia delle armi, e non pagavano mai. Questa situazione per la quale i fuseani ci guadagnavano con i tedeschi ,mentre loro ci rimettevano con i patrioti, non andava giù ai cazzaini. Anche perché, se come si suol dire l'invidia è la più grande virtù dei carnici, i cazzaini non sono certo poco virtuosi..
I partigiani di Cazzaso decisero di porre fine all'ingiustizia. Fu così che un giorno i partigiani aspettarono al bivio per Cazzaso i due militi tedeschi che scendevano con le taniche di latte e li presero a fucilate. Anche oggi i cacciatori di Cazzaso vengono presi in giro perché, quanto a mira, lasciano molto a desiderare. I due militi sentendosi fischiare attorno le pallottole abbandonarono precipitosamente il latte e scesero il ripido sentiero che tagliava i tornanti della strada carrabile, con la velocità di un fulmine.
Ma ad onor del vero l’idea non era stata dei partigiani cazzaini, come ben dimostra il fatto che proprio quel giorno ben tredici donne di Cazzaso, ignare di tutto, erano scese a Tolmezzo per procurarsi del pane è qualcos'altro da mangiare. I partigiani, come s’è detto, andavano fieri del fatto d'aver cinto d'assedio Tolmezzo.. Ma era ben strano questo assedio! Da sempre nella storia sono gli assediati a dover fare le sortite per procurarsi del cibo, qui invece erano le donne degli assedianti a cercare di entrare a procurarsi del cibo, nella città assediata. Queste sono le stranezze della storia della Carnia!
Le donne di Cazzaso sapevano poco di storia e proprio quel giorno, si era a settembre, erano entrate a Tolmezzo a far rifornimento di viveri. Non era difficile entrare. Il problema era come uscire. Esattamente l'opposto di ciò che viene in una città assediata!
Sul ponte di Caneva c'era un presidio tedesco che con un posto di blocco doveva impedire che dalla città assediata uscissero i viveri degli assedianti. Le donne spiegavano che era cibo per le loro famiglie per i loro figli. Ma quelli le accusavano di rifornire il partigiani e con un'accusa del genere si stava poco a finire a Udine in via Spalato e da lì a in campo di concentramento a Dachau. Le donne erano quindi costretta a guadare il But a valle di Caneva per poi risalire e prendere la strada per Cazzaso. Ma non era finita perché attraversato il But si era in zona a controllo partigiano, nella cosiddetta Carnia Libera. Tanto libera poi non era se c’era il rischio concreto d’essere fermate dai partigiani ed accusate da questi di essere state dai tedeschi a fare la spia. E con questa accusa il meno che ti poteva capitare è ti requisissero “per la causa” tutto ciò che c’era nella gerla. Alcune di loro che si erano dimostrate recidive erano state condannate anche al taglio dei capelli “Imparassero finalmente che non si poteva continuare a fare le spie con la scusa di dar da mangiare ai figli!”
Così fecero anche quel giorno le undici più anziane. Maria, la più giovane, era scesa solo a prendere del pane, e non aveva il coraggio di attraversare la corrente del But. Si era accompagnata a Nena che aveva mal di cuore e non poteva fare sforzi. Loro due avevano quindi deciso di rischiare l'attraversamento del ponte di Caneva. Con le gerle piene di pane sarebbe stato un suicidio, e si erano fermate all’osteria La Stazionate, alla stazione della vecchia ferrovia per Paluzza, a pensare al da farsi. In quella stava passando un vecchio contadino di Caneva tirando una barella carica di attrezzi.
“ Buonuomo,” gli chiesero “se metti i nostri sacchi di pane sotto le tue cose i tedeschi non si accorgeranno. Noi ti aspettiamo dall'altra parte del ponte”. Il contadino che le conosceva, ed era veramente un buon uomo, e si prestò a correre per loro il rischio per far uscire il pane dalla città assediata. Le due donne attraversavano il ponte con la gerla vuota e presero ad aspettare dall'altra parte davanti all'osteria Da Rinoldi.
Ma non era una giornata come le altre! I due tedeschi erano già arrivati a denunciare al loro Comando l'aggressione che avevano subito da parte dei partigiani di Cazzaso. Ma, ciò che sapevano solo i partigiani era che l’aggressione agli uomini del latte era solo il primo atto di un piano ben studiato ed organizzato per quel giorno, per dare ai tedeschi una bella lezione, una vera dimostrazione di quale fosse la forza ed il coraggio del battaglione partigiano attestato tra Casanova e Cazzaso.
Dopo una lunga e preoccupata attesa Maria e la sua amica videro arrivare il contadino con la barella. Ma non aveva con sé il pane…
“Non me la sono sentita di rischiare. Ho avuto la sensazione che stesse succedendo qualcosa. E infatti i controlli sono stati intensificati. Mi hanno fatto buttare a terra ciò che avevo nella barella per controllare ogni cosa. Se avessi avuto il vostro pane ora sarei già in arresto”.
Al buonuomo veniva da piangere e non si poteva fargli una colpa. Maria non riuscì invece a trattenere le lacrime e scoppiò a piangere. Pianse disperata tra le braccia di Nena. “Tutta la fatica, tutta la paura e la tensione nervosa di quelle ore, per nulla…e i soldi persi…
“Ci poteva andar peggio!” la consolava la Nena. “A quest’ora magari potevamo già essere in prigione…”
Il buonuomo aveva detto d’aver lasciato il pane alla padrona della Stazionate. Avrebbero potuto attraversare di nuovo il ponte per andare a riprenderselo.
“Ma non ve lo consiglio!” aggiunse, “me la sento che oggi sta succedendo qualcosa!”
Le sue ultime parole furono accompagnate da un grande scoppio al di là del ponte. Salirono sull’argine per vedere meglio. Non c’erano dubbi stava andando a fuoco la Stazionate con tutto il loro pane…e Maria riprese a singhiozzare, vedendo che il destino quel giorno le si accaniva contro. Non restava altro da fare che riprendere la strada per risalire al paese, con la gerla vuota per raccontare ciò che era accaduto….
Proprio in quello furono raggiunte dalle altre undici che salivano da Caneva dopo aver guadato il fiume. Non ci voleva molto a capire che l'incendio, pur non sapendo come era scoppiato, non era un buon presagio per il resto della giornata, anche loro si stavano affrettando per rientrare. Maria però aveva deciso di adattarsi al passo di Nena e già tra le siepi di Caneva il gruppo delle undici le avevano distanziate. All’attacco della salita del Clapùs c'èra un posto di blocco partigiano.
“Non si può passare. E’ pericoloso. Stiamo per iniziare un'azione contro il presidio tedesco”
Insistettero. “Va bene. Fate in fretta e a vostro rischio e pericolo”. Arrivarono di corsa alla svolta del Clapus, fuori vista rispetto a Tolmezzo, passando dietro alle spalle dei partigiani che erano si appostati sotto al muretto di contenimento della strada. Incrociarono il vicario don Terenzio che di corsa stava facendo il percorso inverso. Anche lui aveva insistito, ed alla fine era stato fatto passare.
Appena in tempo. Dal piazzale della sovrastante chiesa di S.Maria Oltrebut i partigiani presero a sparare sul posto di blocco tedesco seguiti da quelli appostati dietro il muretto della strada I tedeschi presero a rispondere dal posto di blocco che era stato rinforzato dopo lo scoppio che aveva sviluppato l’incendio alla Stazionate molto vicina al posto di blocco. In un attimo si scatenò un inferno di scoppi con pallottole che fischiavano da tutte le parti. Le due donne avevano incrociato il vicario proprio mentre esplodevano i primi colpi. Avrebbero dovuto decidere di mettersi al riparo sotto l’argine che costituiva una sorta di trincea, ma nella confusione del momento decisero invece di ritirarsi nella Maina che c’è all’inizio della scalinata che porta alla Pieve. La cappelletta è aperta proprio dalla parte dalla quale arrivavano i proiettili dei tedeschi, ed i tre dovettero appiattirsi contro le pareti laterali riparate dal tratto di muro che segna l’entrata ad arco della Maina.
Per fortuna sentivano rimbalzare le pallottole solo sui muri all’esterno, mentre il vicario aveva preso a recitare il rosario.
“Ragazze, pregate perché Gesù ci conceda una buona morte,” diceva loro il prete.
“Ma don Terenzio, noi vogliamo pregare perché ci faccia la grazia di poter tornare al paese,” diceva Maria, alternando il pianto alle parole, e seguendo il prete in qualche tratto di Ave Maria, saltando per scaramanzia la seconda parte con l’invocazione “adesso e nell’ora della nostra morte”.Non c’erano parole più adatte per rappresentare la sua disperazione di giovane ragazza che sentiva il sovrapporsi ed il coincidere delle parole “adesso” e “morte”…
Passarono alcune ore senza potersi muovere, alternando la preghiera al pianto...
Alcune ore perché nopn si trattava di una sparatoria casuale ma di una azione organizzata per intimidire i tedeschi che non avrebbero dovuto più salire a Fusea (come poi fecero) e avrebbero dovuto “assaggiare” tutta la capacità di fuoco del battaglione “Leone Nassivera” che occupava il saliente della Pieve di S.Maria Oltre But e aveva sotto tiro il loro posto di blocco sul ponte di Caneva, e che per mostrare la sua spavalderia aveva issato la bandiera rossa sul campanile della Pieve.
Naturalmente i tedeschi risposero alla grande alla fucileria dei partigiani, con i tiri di mortaio e poi prendendo a cannonate il paese di Fusea che non aveva proprio nessuna colpa. Ma di quei tempi era diventato purtroppo normale che finissero a pagare sempre gli innocenti!..
Per il sentiero del Bant e poi per il guado del But utilizzato dalle donne si precipitò a Tolmezzo da Fusea, certo Arcangelo che nel caso fu tale di nome e di fatto, che con la mediazione del cappellano don Carlo già vicario a Cazzaso, riuscì a spiegare il malinteso, facendo cessare il bombardamento sul paese. Dopo che comunque erano già state incendiate delle case nella borgata di Dortes.
Quando riuscirono a rientrare finalmente al paese assieme al Vicario, furono accolte come delle redivive. Ormai in paese s’era data per certa la loro fine sotto ai bombardamenti…
Per rimettere a posto le cose tra i due paesi, e dovendo i partigiani rafforzare l’assedio a Tolmezzo anche Fusea finì con l’avere i partigiani. Ma per mantenere le differenze se a Cazzaso c’erano i Garibaldini del battaglione “Leone Nassivera” a Fusea si stabilirono in Somp lis Voris i “badogliani”, con una compagnia distaccata del Btg Val But degli osovani di stanza a Priola di Sutrio.
Mirko
Quella di Cazzaso deve essere stata considerata sin dall’inizio una zona interessante per un distaccamento di partigiani. Forse perché da lì passava una linea immaginaria di ritirata e fuga da Casanova fino in Duronc, e poi nelle malghe di Corce e Chiàs. Per questo già a primavera era stata visitata da Mirko il terribile comandante del Battaglione Friuli della Divisione Garibaldi. Era una giornata di sole, tutta la famiglia era nei campi a vangare. Maria era stata lasciata sola in casa a preparare il pranzo. Ad un certo momento sentì risuonare in cortile dei passi pesanti, di scarponi chiodati e le balzò il cuore in gola. Quando sentì battere con forza alla porta mancò poco che svenisse. Era rimasta irrigidita dalla paura senza riuscire a muoversi per andare ad aprire. Non ce n’era bisogno, per fortuna la porta era aperta, altrimenti l’avrebbero sfondata. Entrarono quattro partigiani con il fazzoletto rosso al collo, e indosso fucili e pistole. Il comandante che gli altri chiamavano Mirko, era un omone che le parve enorme, con un cappellaccio in testa ed un fucile mitragliatore di traverso sul petto. Per tranquillizzarla le dissero di non aver paura, che nessuno voleva farle del male.
“Abbiamo fame,” le dissero con un tono che non ammetteva discussione. “Dacci qualcosa da mangiare.
“Non abbiamo pane,” disse lei con un fil di voce. Come era vero. “C’è solo della polenta fredda da ieri sera,” aggiunse poi cercando di farsi coraggio.
“Va bene per la polenta, con una bella frittata,” disse il capo in un italiano con accento straniero. Non poteva dire che non aveva uova perché avevano di certo già visto le galline nel cortile di casa, ma volendo trovare una scusa perché se ne andassero da qualche altra parte. “Mi manca la padella,” disse, mentendo. Una bugia del genere le sarebbe potuta costare molto cara. Per sua fortuna s’erano già seduti stanchi e non s’alzarono per andare a controllare le padelle che aveva nel retrocucina.
“Arrangiati! Fai come vuoi. Fatti prestare una padella ma sbrigati a fare la frittata” urlò il capo. Morta di paura corse dalla vicina di casa. Balbettando, spiegò in qualche modo la situazione e tornò sempre di corsa con una grande padella. La mise sulla piastra del focolare con pezzettino di burro appena visibile come condimento, e prese a sbattere le uova. Il comandante che, continuando a parlare con i suoi, la stava seguendo mentre si muoveva per la casa, quando la vide misurare il condimento a quel modo, scoppiò in una fragorosa risata:
“Metti questo!” le disse traendo da una borsa che aveva a tracolla una palla di burro che avevano appena requisito nella vicina latteria, grande come una delle più grandi patate che si possono raccogliere nel campo.
“Ma è troppo,” si permise lei di obiettare con un filo di voce.
“Per i miei gusti, parli troppo,” disse lui, alzando la voce. “Ringrazia Dio che mi hai trovato in giornata buona. Fai come ti dico e non aprire più la bocca”
Già per la paura le mancava la saliva e le si seccava la gola, a quelle parole, le parse veramente d’aver inghiottito la lingua e d’essere diventata muta. Mise a sciogliere tutto quel burro. Ma quando vi versò sopra le uova sbattute, il condimento debordò dalla padella spandendosi sulla piastra riempiendo di fumo e di odore di burro cotto la casa.
S’attendeva d’essere sgridata e invece presero la cosa, con una risata. Mostrarono anche di gradire la frittata che avevano trasformato in una sorta di zuppa con tanta polenta sminuzzata ad assorbire tutto quel condimento. Finito di mangiare la salutarono allegri, per tornare nei loro rifugi sopra il paese di Vinaio. Il capo lo fece sghignazzando.: “Per la prossima volta, quando torneremo, dì a tua madre di procurare una padella più grande” le disse a mò di saluto.
Quando se ne furono finalmente andati Maria raggiunse di corsa i suoi nel campo.
“Cosa c’è?” le chiese sua madre vedendola arrivare stravolta, con il viso cadaverico.
Svenne, senza trovare le forza di rispondere… E per diversi giorni la dovettero curare per una inarrestabile dissenteria…
La morte di Teresa.
Di Mirko a Cazzaso si sentì parlare di nuovo il primo luglio. Come si legge nel Municipio di Tolmezzo “nella notte tra il 30 e il 1° corrente, è stata da ignoti trasportata nel cimitero di Fusea una salma di giovane donna che si dice uccisa in frazione Buttea di Lauco. Non è stata riconosciuta”. Si diffuse la voce che fosse stato Mirko ad ucciderla, perché a lui ormai nella zona veniva attribuito tutto ciò che di efferato veniva fatto dai partigiani. Per le chiacchiere di paese si trattava di una amante che aveva punito.
Alcuni giorni dopo scese in paese una donna di Buttea. Anche da lassù si scendeva a Tolmezzo a cercare qualcosa da mangiare, e raccontò la vicenda di Teresa Santellani una ragazzina nata a Invillino nel 28 e quindi di soli sedici anni. Come s’era poi saputo, accusata d’essere una spia era stata presa dai partigiani in casa e fatta salire scalza fino a Luaco. Qui la padrona dell’osteria le aveva regalato i scarpez della figlia. Avevano proseguito fino al comando partigiano di Salvins sopra Vinaio, dove era stata interrogata e condannata. Aveva proseguito poi con i suoi carnefici per Buttea. E qui la donna raccontava d’averla vista arrivare nella notte.
Ero ancora sveglia ed ho sentito bussare forte alla porta. Sono andata ad aprire, piena di paura pensando a quei delinquenti dei partigiani. S’è invece presentata lei una bella ragazza e mi ha chiesto se le davo carta e penna per scrivere. Tutto mi sarei aspettato eccetto che una richiesta del genere. Con lei sono entrati i due accompagnatori, due figuri da patibolo. Le ho dato da scrivere e mentre lo faceva ho preparato un caffè per tutti e tre. Ha consegnato lo scritto a uno dei due chiedendo venisse consegnato alla madre.
“Dove la state portando?” ho chiesto loro.
“A far troppe domande si corrono solo inutili rischi,” mi ha risposto brusco uno dei due.
Credevo purtroppo d’aver capito cosa stessero per fare, continuava la donna nel suo racconto, e mentre stavano uscendo ho ancora insistito dicendo: “Non avete paura della giustizia divina? Cosa può aver fatto di così grave questa povera ragazza?”. Mi hanno buttata a terra con uno spintone e se ne sono andati. Lei davanti e loro dietro, come Cristo tra i suoi carnefici. Alla mattina un gruppo di donne stavamo scendendo per andare a Tolmezzo quando sul ponte del Chiantone abbiamo visto una macchia di sangue. Istintivamente mi è venuto di guardare nella forra, sotto al ponte, ed ho visto la ragazza della sera prima, sopra un albero che si sporge di traverso. Come un uccello che resta attaccato con il vischio alla pania. Siamo corse su allora a chiamare gli uomini che si sono calati con le corde e hanno recuperato il corpo. Era stata uccisa con un colpo solo alla nuca. Evidentemente l’avevano uccisa sul ponte e poi gettata di sotto. Ma per la fretta non si erano fermati a guardare, sicuri che fosse finita nel profondo delle acque del Chiantone. Gli uomini l’hanno poi trasportata nel vostro cimitero, perché qualcuno provvedesse alla sepoltura.
Le ragazze d’allora ricordano d’essere state a dirle un requie, nella cella mortuaria. Era una bella ragazza, con dei capelli lunghissimi. Ma non c’è ricordo del funerale. E probabile che le esequie sia state fatte in modo molto riservato per non urtare i partigiani…
Poi Mirko si trasferì a Pani di Raveo e la zona di Vinaio fu occupata dagli osovani di Barba Livio (Romano Zoffo) “Bravo ma con le spie troppo severo” come dice il Parroco di Vinaio don Francesco Zaccomer anch’egli partigiano con il nome di Franzak e di cui si dice dicesse messa la con pistola sull’altare.
La strage di malga Cordin.
Con l’orrore della guerra il paese dovette fare un altra volta i conti il 20 luglio. Come d’uso nel mese di giugno le bestie venivano trasferite in malga. quell’anno D’Orlando Liduino di Cazzaso e D’Orlando Cristoforo di Fusea s’era accordati per monticare assieme la malga di Cordin grande in Comune di Paularo, al confine con l’Austria. Avevano preso come pastori esperti il figlio di Cristoforo, Primo, ed il genero Attilio Mongiat, e come ragazzi il figlio di Liduino, Agostino ed un altro ragazzo di Cazzaso Stefanutti Albino.
Non era un anno come gli altri. Sulle malghe c’erano i partigiani, c’erano i tedeschi che facevano rappresaglie. C’era insomma pericolo. Maria ricorda d’aver ascoltato in piazza le parole preoccupate di Mongiat. La moglie di Liduino aveva insistito sconsigliandolo a portarsi in malga un figlio così giovane con i tempi che correvano. Ma non si poteva fare a meno dell’alpeggio. Si sarebbero dovute eliminare delle bestie per mancanza di coraggio. Insomma si doveva partire, e infatti partirono, Agostino accompagnato dalla sorella Alie con la gerla a portare i vestiti e il necessario per passare tre mesi in malga. Nelle sue parole ancora vivo il ricordo di quel viaggio con pernottamento a Paularo da certo Blanzan.
Per eseguire una feroce rappresaglia arrivò il 18 luglio in malga un gruppo di soldati delle SS vestiti da partigiani garibaldini. Erano già passati per Lanza, dove avevano ucciso due pastori. Incontrarono all’esterno della malga i due ragazzi che giocavano e li uccisero a freddo. Agostino con la fionda in mano. Attilio e Primo i due più grandi, per sfuggire si rinchiusero nel “celar”, la stanza del formaggio, ma i tedeschi sfondarono la porta e uccisero anche loro. Non c’era Liduino che era sceso per affari a Tolmezzo, lasciando, secondo la testimonianza della figlia, la gestione della malga al socio Cristoforo. Ma non c’era neppure il socio che secondo la testimonianza della figlia, anche lui era tornato a casa per prendere alcune cose. Comunque anche se fossero stati presenti non avrebbero potuto far altro che allungare la lista dei morti di Cordin.
Intanto a Cazzaso era arrivata in qualche modo la notizia della strage di Lanza. Le due malghe sono confinanti, e quindi la notizia viene presa con grande apprensione e preoccupazione. Liduino con la moglie di Cristoforo e una sua sorella, il 19 partono a piedi per Cordin. Dormono la sera a Paularo ed all’alba del giorno dopo, sono in malga disperate a constatare ciò che è successo. Liduino non ha neppure il coraggio di arrivare in malga. Sente le grida di disperazione delle due donne. Immagina ciò che è successo. Si sente forse in colpa ricordando quanto aveva insistito la moglie perché non mandasse il figlio in malga.
Per le due donne non c’era altro da fare che scendere ad avvertire di quanto era successo. Si caricano quindi la gerla e ritornano a Paularo e poi a Fusea. Liduino secondo la testimonianza di Alba “colto dalla paura era sparito”. Colto dal rimorso, più probabilmente, o impegnato a capire cosa fosse veramente successo, perché erano sparite anche tutte le bestie, tutte le mucche e tutte le capre. Un particolare che si aggiunge a tanti altri per aiutare gli storici a ricostruire quali siano state le vere motivazioni che hanno portato alla strage di Lanza e Cordin che è poi proseguita tre giorni dopo con quella ancor più pesante di Malga Pramosio, continuata poi in forme anche più tragiche a danno degli abitanti di Paluzza e Sutrio.
Per quel che riguarda la storia di Cazzaso. si può immaginare come la morte di Agostino e di Albino sia stata accolta dalle due famiglie e dall’interno paese. Solo il 22 è stata data la notizia alla madre che era incinta al nono mese e che per l’emozione ha partorito immediatamente un nuovo maschio al quale evidentemente è stato dato il nome di Agostino. Lo stesso giorno alcuni volontari hanno recuperate le salme e su delle scale di legno le hanno portate a Paularo. Si è deciso di inumarle provvisoriamente nel cimitero di quel paese, perché erano in corso rappresaglie in tutta la valle del But. Come racconta Alba nella testimonianza raccolta da Conedera “Il 24 luglio si sono celebrati i funerali di tutte le vittime. All’uscita della chiesa qualcuno ha gridato che stavano arrivando i tedeschi. C’è stato quindi un fuggi fuggi generale abbandonando le bare sul posto. Fortunatamente era un falso allarme. Nella primavera del ’46 le salme di Agostino ed Albino sono state riportate a Cazzaso, e inumate nel cimitero del paese con un funerale che ha visto la partecipazione di una folla enorme.
La battaglia dell’8 ottobre.
L’8 di ottobre è’ domenica, la festa dell’ottava del Rosario.In cielo ci sono squarci di azzurro ma scorrono nubi basse sui fianchi delle montagne.E’ appena suonata l’Ave Maria del mattino, quando si cominciano a sentire gli echi della battaglia scoppiata in basso. I tedeschi stanno attraversando il But e puntano su Casanova anche con i carroarmati. L’avanzata è protetta da uno sbarramento di fuoco che travolge le resistenze dei partigiani alla Pieve di S.Maria comandati da Furore. Alle 9 i partigiani stanno già ripiegando su Terzo, per poi ritirarsi ancora su Zuglio. A Cazzaso ci si dà da fare per ripulire la scuola che era stata occupata dai partigiani. Si vuole eliminare ogni traccia di presenza partigiana per evitare le rappresaglie dei tedeschi. Raccogliendo il fieno che avevano utilizzato per giaciglio Maria si ritrova tra le mani una bomba a mano inesplosa e senza sicura. Per la festa del perdon era tradizione che salisse della gente da Terzo, ora sono invece salite spaventate le donne che cercano di sottrarsi ai rastrellamenti ed alla furia dei tedeschi e dei cosacchi.
A mezzogiorno infuria la battaglia dalle parte opposta tra Navarlons e Illegio, intanto sulla strada per Fusea salgono gli squadroni cosacchi a cavallo, attraverseranno Cazzaso e Sezza per poi attestarsi a Fielis ed alla Pieve di S.Pietro.
Al pomeriggio inizia a piovere a dirotto, per Cazzaso è finita l’occupazione di partigiani e inizia quella dei cosacchi.
Con i Cosacchi.
I primi erano passati lo stesso giorno. Erano gli squadroni della cavalleria che per Marcilie andavano ad occupare Fielis e S.Pietro per costringere i partigiani a ritirarsi. Ma poi arrivarono quelli stanziali. La Carnia era stata assegnata da Hitler ai Cosacchi come loro patria provvisoria con il nome di Kosakenland questi si sistemarono come fosse casa loro, quasi in ogni paese. Quasi, perché, anche i Cosacchi come a voler marcare la differenza tra i due paesi, preferirono sistemarsi a Fusea. Ma consigliati evidentemente da quei furbi di fuseani, mandavano i loro cavalli a pascolare nella campagna di Cazzaso. Pazienza durante l’inverno. Ma a primavera quando si doveva cominciare a preparare i campi, i cavalli che scorazzavano liberamente diventarono un vero problema. Come era un grosso problema quello della fame dei Cosacchi. Non era minore di quella dei cazzaini, dopo che i nuovi arrivati avevano ripulito anche quello che era rimasto dalle razzie dei partigiani. Ma i paesani sapevano che si deve rinunciare a qualche pezzo di patata a primavera, da riservare come semente, se si vuole raccogliere qualcosa in autunno. I Cosacchi invece, vuoi perché la fame era troppa, vuoi perché se la sentivano che per loro non ci sarebbe stato un autunno in Carnia, andavano in cerca anche delle patate appena deposte a far da semente. Erano i corvi ad avere il vizio i posarsi sui campi a beccare i chicchi di granoturco interrati come semente. E con gli uccelli si sapeva che bastava uno spaventapasseri, ma a come spaventare i cosacchi nessuno s’era ancora inventata una soluzione. Non restava che privarsi di altri pezzi di patate per ripiantare sperando che non s’accorgessero che il campo ove avevano già raccolto era stato ripiantato.
I cosacchi…ce n’era di ogni tipo, c’erano quelli così sporchi che a passargli vicino ti veniva da vomitare c’erano quelli raffinati. Nella casa di Sara in Cjaveç c’era un pianoforte, e un cosacco vi passava delle ore a suonare…e suonava da Dio.
Comunque per difendersi dalle loro angherie cazzaini e fuseani, appena li vedono insediarsi in paese, chiedono al Commissario Prefettizio di Tolmezzo Angelo Schiavi di poter formare un comitato di difesa e già il 13 ottobre il Commissario scrive:
Vi confermo che autorizzo i sottonotati cittadini a formare il Comitato locale per la protezione della cittadinanza e del patrimonio ed impianti di ragione pubblica nelle contingenze attuali e fino al ritorno della normalità. I sottoelencati sono invitati a riferire tramite il capofrazione di Fusea Mazzolini Giovanni quanto risulti di anormale e che interessi la collettività e patrimoni pubblici e la protezione dei singoli:
Per Fusea: Mazzolini Giovanni, Piutti Giovanni, D’Orlando Arcangelo, Mazzolini Giacomo, Valle Paolo, Peresson Giovanni.
Per Cazzaso: D’Orlando Antonio, D’Orlando Amadio, Gressani Ferruccio, Cimenti Onorio. Nutro fiducia che la concorde opera dei suddetti valga ad alleviare almeno in parte le sofferenze che i momenti attuali tormentano la nostra Carnia.
Molto solerti alcuni giorni dopo chiedono al Comune se saranno rimborsati per i viveri e i foraggi che forniscono ai Cosacchi. Il Commissario il 21 ottobre gira la richiesta alla Prefettura, ma la domanda si deve essere poi persa tra le scartoffie.
Per fortuna ai primi di maggio del ’45 anche i Cosacchi se n’andarono. Era finalmente finita la guerra.
Dopo la liberazione.
E’ finita la guerra ma non finita la fame. Il padre di Agostino si mette nel commercio o per meglio dire nel baratto. Parte da Cazzaso con un carro carico di legna e torna con granoturco ed altre cose da mangiare. Ma un giorno in uno di questi viaggi, s’accascia in una osteria a S.Tommaso di Majano colpito da un infarto improvviso. E’ il 22 luglio del 45. Il gioco strano del destino! E’ passato un anno esatto dal giorno nel quale sua moglie ha avuto la notizia della morte di Agostino ed ha messo al mondo un altro Agostino.
In casa di Maria non ci sono carri e cavalli ma fame sì. Lei è la più grande di cinque fratelli e sua madre è di nuovo incinta. Anche lei come altre, con l’amica Alma viene mandata addirittura fino a Muzzana a procurare granoturco per la famiglia.
Vivo ancora nella memoria, dopo sessanta anni, il ricordo di quel viaggio. La fortuna d’un autostop di militari inglesi fino a Muzzana. Da qui a piedi alla frazione nella quale dovevano rifornirsi. L’arrivo alla sera nella casa dei contadini, la cena assieme a loro, e poi a dormire nella stalla. Ma proprio quella sera il toro riesce a liberarsi della catena, e si può immaginare la notte di due ragazze sole in una stalla nella quale gira libero un toro! Finalmente viene giorno, e si può partire. Cariche le gerla, ed anche con dei sacchi da portare a mano, sempre contando sulla generosità di qualche passaggio. E infatti un carradore le porta fino a Mortegliano. Qui per la grande fame sono costrette a chiedere l’elemosina di qualcosa da mangiare. Maria non ha il coraggio, vi provvede per entrambe l’amica. E poi di nuovo sul cassone d’un camion fino a Udine, e su un altro fino a stazione per la Carnia. Qui la generosità d’un paesano impietosito mette a loro disposizione una barella e si impegna a venire a riprendersela a Casanova, dove la lasceranno per riprendere la gerla sulla schiena e salire finalmente al paese.
E’ finita la guerra, ma non c’è lavoro…e per i più, (soprattutto quelli che non possono presentare il credito del servizio come partigiani!) non resta che la via dell’emigrazione, per molti addirittura come clandestini, verso la Svizzera o la Francia.
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