In un casolare in sella Duron viveva una coppia molto povera che si alimentava con il latte di una capra e raccogliendo frutti di bosco. Pur sapendo che sarebbe stato difficile mantenerlo desideravano tanto avere un figlio. Alla fine, dopo tante preghiere alla Madonna di Cjanàs, furono esauditi e Lea, così si chiamava la moglie, diede alla luce una bellissima bambina. Bella come una delle bambole che si ammiravano nelle bancarelle che vendevano giocattoli al mercato dei Santi a Tolmezzo, ma tanto pallida. Forse perché non aveva avuto alimenti a sufficienza nei nove mesi vissuti nel grembo materno.
Il padre Bai, (così chiamato con le storpiature dei nomi dovute al primo balbettio dei fratellini che poi ti porti per tutta la vita, come Dede per Ettore) era molto felice, ma non sapeva se rallegrarsi per il candore del viso della bambina o spaventarsi per il pallore. Era bianca come la neve e venne spontaneo chiamarla Biancaneve.
Ma se il nome risolveva in qualche modo il problema degli aggettivi con cui definirla la realtà emerse in tutta la sua durezza quando la moglie non ebbe più latte e si presentò il problema di come allevare la bambina, dal momento che anche la capra non dava più latte.
Si resero conto di quanto incoscienti erano stati per aver voluto un figlio senza la possibilità di farlo crescere e addirittura di farlo sopravvivere senza che morisse di fame.
“Non ci resta altra da fare, che portarlo a Caneva alla bussola degli esposti, disse una sera Bai, vedendo deperire sempre più la bambina. “ Non vorrei che avessimo sulla coscienza la sua morte e la dovessimo piangere per il resto della nostra vita”. L’idea gli era venuta ricordando la scoperta che aveva fatto entrando nella chiesa di quel paese e notando la bussola che c’era sulla facciata principale e che gli avevano spiegato serviva per consentire alle donne di abbandonare i bambini frutti di gravidanze che non avevano voluto.
Parlò così con il cuore straziato , seduto sulla panca a fianco della porta della loro casupola, alla moglie che gli si era seduta accanto, uscendo dalla stanza ove aveva lasciato la bambina che non era riuscita a far smettere di piangere.
“Purtroppo ci ho pensato anch’io disse lei con il cuore in gola, sforzandosi di trattenere le lacrime per fare coraggio al marito. Ma invece che nella bussola a Caneva la lascerei a Cazzaso sulla strada che porta in Mercelie. Vi passano tante donne, mattina e sera per andare ad accudire le bestie. E’ un paese di buona gente. Sono sicura che ci sarà una mamma che la raccoglierà per allevarla come fosse sua figlia.
“Mi pare una buona idea!” mormorò Bai e senza interporre indugi, nella luce del tramonto che indorava la vetta del monte Dobis, prese la cesta con la bambina e scese a deporla sulla strada per Marcelie, ai piedi della Maina al bivio del sentiero che porta in Barbùnies.
Fra poco sarebbero rientrate le donne con il latte della mungitura serale e non avrebbero potuto non notarla.
Invece che nascondersi per vedere la donna che avrebbe raccolto suo figlia, Bai risalì a consolare la moglie.
“Ma dovevi fermarti!” lo rimproverò lei.
“Non voglio sapere quale sarà la famiglia che supplirà alla nostra incapacità di fare i genitori. Voglio solo essere sicuro che è finita nelle mani di una madre generosa che non ha resistito al suo pianto. Prima che si faccia buio scenderò di nuovo a controllare se tutto è andato come abbiamo immaginato.”
Scese infatti e nelle prime ombre della notte vide che la cesta era sparita con la bambina e si mise il cuore in pace sicuro che sua figlia era stata adottata. Tornò a riferirlo alla moglie e piansero assieme tutta la notte e le notti successive finchè si rassegnarono nella convinzione che la loro Biancaneve oltre all’amore che loro avrebbero voluto darle, aveva trovato qualcuno disposto a darle, ciò che loro non potevano darle, perché purtroppo nella vita non sempre e non solo bastano le parole e i sentimenti.
In effetti nell’ora trascorsa tra la prima e la seconda discesa di Bai era successo il miracolo. Ma un miracolo ancora più sorprendente rispetto a quello in cui aveva sperato lui con sua moglie.
Era appena ripartito dopo aver abbandonato la cesta e dato a Biancaneve che non smetteva di piangere, l’ultimo bacio di addio, quando passò di lì tornando da Cazzaso, una squadra di sette Sbilf.
Avevano appena saputo che Blesòt il proprietario del piccolo stavolo di Barbùnies, era stato chiamato a fare il militare ed era partito per andare in guerra. Arrabbiato con il Governo e con il Destino aveva deciso di lasciare lo stavolo ai suoi animali per cui in Barbunies c’erano pecore e capre, conigli e galline, ormai allo stato brado. Gli Sbilfs avevano così avuto l’idea di andare ad abitarvi assieme a agli animali.
Arrivati alla Maina al bivio da cui diparte il sentiero che sale a Barbùnies, sorpresi a sentire il pianto disperato di Biancaneve, restarono di sasso davanti alla cesta nella quale si agitava la piccola bambina.
Senza esitazione il caposquadra Dotto esclamò: “La portiamo con noi. Disgraziati quegli umani che mettono al mondo dei figli e poi li lasciano per la strada senza farsi carico di aiutarli a crescere”
Detto fatto. Ma anche in sette, degli Sbilfs molto più piccoli di quella piccola bambina avrebbero potuto trasportare la cesta che la conteneva.
A meno che…da giorni si sapeva che il Principe degli Sbilf di Marcelie, studiando la storia antica degli Sbilfs aveva scoperto la formula magica che in passato aveva consentito loro di trasformarsi in umani.
Prima si sapeva che bevendo l’aqua pudia di Lorenzaso potevano trasformarsi in animali a scelta e così, convivere con gli umani. Ma la possibilità di trasformarsi proprio in umani era parsa sempre un’ idea da doversi escludere. Fino a qualche giorno prima, quando era stata annunciata la scoperta che invece la trasformazione era possibile e bastava pronunciare a un formula magica per farlo.
Ma nessuno ci aveva ancora provato. Ai sette bastò uno sguardo ‘intesa per comunicarsi a vicenda che quello era il momento per provarci, e quindi provare a recuperare la bambina abbandonata dagli umani.
“Schiarazzule Marazzule” gridarono ad una voce e come d’incanto si trovarono trasformati in umani. Non proprio! Avevano le dimensioni dei ragazzi degli umani, ma comunque più che sufficienti per mettersi tre al lato destro della cesta e tre a quello sinistro, con Dotto a fare da guida e mettersi sul sentiero che porta a Barbunies, con Biancaneve che, forse sorpresa o forse perché cullata dal dondolio della cesta aveva smesso di piangere.
Forse portata da qualche cacciatore ,a Cazzaso si diffuse subito la notizia di ciò che stava avvenendo nello stavolo abbandonato da Blesot: c’erano sette gnomi che portavano a passeggio una bambina in una carriola. Il capo-frazione sulle prime pensò di avvertire il Sindaco, ma si intromise il pievano a dire che quanto stava capitando non poteva che essere opera del demonio. Per non avere spiacevoli ritorsioni sul paese da parte di Satana era meglio stare alla larga, scegliere la strada dell’omertà e mantenere il segreto.
Fu così che Biancaneve potè crescere indisturbata, accudita da sette piccoli uomini che facevano a gara ad essere servizievoli nei suoi confronti. Blesòt non si era mi fatto più vedere. Forse perché morto in guerra. Non aveva lasciato eredi che vantassero il diritto di proprietà. E se anche ne avesse avuto, certamente non si sarebbero fatti avanti per contestare al demonio l’occupazione abusiva dello stavolo di Barbunies.
L’unica variante alla vicenda era che i cacciatori, passando da quelle parti, pur senza avvicinarsi troppo, di anno in anno riferivano che la bambina non andava più in carriola, ma scorrazzava per i prati e che poi era diventata una bellissima signorina. Per mantenerla i sette nani non avevano problemi curando le bestie e l’orto che aveva lasciato Blesot. Restava un mistero come facessero a trovare i vestiti per adeguarsi alla sua crescita. “Per vestirla come fosse una Principessa” riferivano i cacciatori.
“Ma il demonio può quello e altro” continuava a spiegare il pievano. Erano invece gli Gnomi a non sapersi spiegare come sarebbe finita la storia di quella signorina che non aveva mai abbandonato lo stavolo di Barbùnies, ma che non poteva certo trascorrere il resto della vita, isolata assieme a loro. Le avevano procurato tanti libri, da bambina le avevano insegnato a leggere e a scrivere e poi crescendo avevano discusso con lei quanto andava leggendo. Avevano assecondato le sue curiosità avevano fatto per lei quello che dovrebbe fare un buon maestro: insegnare ad imparare.
Ma ora che era diventata una donna?
Che il seguito sia stato opera del demonio o del Destino non è dato a sapersi ma è certo che quel che avvenne fu ancora più sorprendente di quanto era già stata originale la vita di Biancaneve.
Il monte Diverdalce era stato scelto dagli appassionati di volo a vela per lanciarsi con gli aquiloni e librarsi nel cielo della conca tolmezzina. Un giorno uno di questi sorvolando i prati di Barbùnies perse quota a fu costretto ad atterrare, finendo proprio vicino a Biancaneve che stava leggendo un libro su una panchina che gli sbilfs le avevano costruito sul prato davanti allo stavolo.
L’aquilonista ebbe appena il tempo di sorprendersi dallo spavento che aveva avuto per per la perdita di quota che restò incantato dalla bellezza di quella ragazza che s’era trovata davanti, come una apparizione inaspettata.
Balbettarono qualcosa a dire della reciproca sorpresa poi si sciolsero a parlare come fossero state due persone che si erano conosciute da sempre. Il rossore sulle guance di Biancaneve diceva l’emozione di fronte a quel giovane sceso dal cielo, il giovane non sapeva chi ringraziare per il sentimento che sentiva crescere nel suo cuore.
Dopo un paio d’ore s’erano già giurato amore eterno e avevano deciso di sposarsi .
“A chi devo chiedere la mano?” chiese lui.
I sette Sbilfs che avevano seguito la scena chiusi nel fienile, sobbalzarono, non era chiaro neppure a loro, se per la gioia a vedere come il destino aveva risolto il problema del futuro di Biancaneve o per il dolore al sapere che l’avrebbero persa.
“Uscite fuori” disse lei intuendo che si erano nascosti a seguire gli sviluppi della vicenda, e li presentò dicendo “Questi sono i miei tutori. So che vogliono solo la mia felicità e quindi non c’è bisogno di chiedere loro se approvano i sentimenti che istintivamente ci hanno uniti”
Nel discorso lei aveva un po’ spiegato la sua strana situazione , la sua strana vita, ma al vedere i sette gnomi, Ettore, così si chiamava il bel giovane sceso dal cielo, non potè trattenersi dal ridere, scusandosi poi dall’averlo fatto.
“Son successe cose oggi cose che neppure la fantasia di un romanziere di grido avrebbe saputo immaginare” commentò e risero assieme tutti e nove.
Ettore era il figlio di un importante imprenditore della zona. Era laureato e lavorava già con suo padre, che si dimostrò entusiasta per la scelta del figlio quando conobbe Biancaneve. Meno entusiasta la moglie che andava fiera della sua bellezza e che rimase colpita dalla bellezza di quella che sarebbe diventata la sua nuora. Non era la madre di Ettore. Era figlio di un primo matrimonio e con lui aveva sempre avuto rapporti da matrigna che peggiorarono all’arrivo di Biancaneve. Una giovane che emergeva e si faceva ben volere in ogni ambiente, unendo alla bellezza un grande empatia.
Ma si vedevano molto raramente. Ettore aveva un bellissimo attico a Udine con uno splendido panorama verso tutte le montagne della Carnia, alle quali guardava sempre Biancaneve con grande nostalgia, pensando ai suoi Sbilf. Suo padre viveva sulle colline di Moruzzo. Non c’era motivo per cui la suocera nutrisse una crescente morbosa gelosia nei confronti della nuora.
Eppure. Cosa che nessuno aveva previsto perché non aveva nessuna giustificazione, nell’animo della suocera stava covando e diventava sempre più impellente e devastante il desiderio di eliminare la nuora.
Fu così che una sera in una cena in famiglia versò del veleno nel bicchiere di Biancaneve, ma in un gesto d’amore i due giovani sposi si scambiarono il bicchiere. La matrigna, presa di contropiede non potendo autodenunciarsi, non potè arrestare il Destino che, per sua mano, uccideva il figliastro.
Talmente assurdo il gesto che nessuno pensò di indagare e il Destino si prese la colpa d’aver stroncato la vita di un giovane nel fiore degli anni, di aver infranto il sogno di Biancaneve di vivere una vita normale con un marito e dei figli.
Pianse Biancaneve per la perdita di Ettore almeno quanto avevano pianto i suoi genitori costretti ad abbandonarla, ma poi si convinse che l’unico modo per elaborare un lutto è quello di dare un senso in positivo a ciò che resta, quando il Destino ci ha tolto qualcosa.
La storia finì così di nuovo in Barbunies, in una bella villa che Biancaneve, con i soldi della vendita dell’attico in città, s’era costruita al posto dello stavolo di Blesot, dopo aver acquistato dal Demanio, (in mancanza di legittimi proprietari), tutti i terreni del bellissimo pianoro da dove lo sguardo spazia su tutta la conca tolmezzina e sulle montagne che la circondano.
Una villa con accanto una fattoria didattica ove gli Sbilf in forma di Gnomi allevavano tanti animali, coltivavano tanti tipi di piante e di fiori.
Una villa dove Biancaneve decise di tornare a vivere pe godersi l’incanto delle sue montagne e il piacere della compagnia dei suoi Sbilf.
I sette infatti avevano scoperto che la formula magica serviva in un senso e nell’altro: per diventare gnomi e ridiventare Sbilfs. Così come d’abitudine gli agricoltori si cambiano d’abito quando escono dalla stalla per entrare nella casa, loro si cambiavano di costituzione: Gnomi nella stalla ed in campagna, Sbilfs capaci di volare come uccelli nella villa.
E come gli uccelli con il loro canto deliziano l’udito degli umani, così loro cantando le melodie che venivano dal mondo e dalla storia degli Sbilf, allietavano le giornate di quella che era diventata la loro padrona di casa.
Su invito di Biancaneve i ragazzi di tutte le scuole della Carnia venivano a trascorrere alcuni giorni per imparare che il senso della vita sta nel realizzare se stessi vivendo secondo natura, a capire quanto grande fosse la fortuna riservata loro dal Destino per averli fatti nascere in un posto meraviglioso come la Carnia e non in uno squallido condominio di città.
Un angolo di verde, la Carnia, che nei giorni trascorsi assieme a Biancaneve, imparavano ad amare per immaginarlo come il luogo ideale ove pensare di costruire il proprio progetto di vita. Perché, continuava a insegnare loro Biancaneve, non c’è nulla di meglio per essere felici che poter vivere con chi si ama in un luogo che si ama.
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