lunedì 20 ottobre 2025

Biancaneve e i sette Sbilfs

 

                In un casolare in sella Duron viveva una coppia molto povera che si alimentava con il latte di una capra e raccogliendo frutti di bosco. Pur sapendo che sarebbe stato difficile mantenerlo desideravano tanto avere un figlio. Alla fine, dopo tante preghiere alla Madonna di Cjanàs, furono esauditi e Lea, così si chiamava la moglie, diede alla luce una bellissima bambina. Bella come una delle bambole che si ammiravano nelle bancarelle che vendevano giocattoli al mercato dei Santi a Tolmezzo, ma tanto pallida. Forse perché non aveva avuto alimenti a sufficienza nei nove mesi vissuti nel grembo materno.

            Il padre Bai, (così chiamato con le storpiature dei nomi dovute al primo balbettio dei fratellini che poi ti porti per tutta la vita, come Dede per Ettore) era molto felice, ma non sapeva se rallegrarsi per il candore del viso della bambina o spaventarsi per il pallore. Era bianca come la neve e venne spontaneo chiamarla Biancaneve.

            Ma se il nome risolveva in qualche modo il problema degli aggettivi con cui definirla la realtà emerse  in tutta la sua durezza quando la moglie non ebbe più latte e si presentò il problema di come allevare la bambina, dal momento che anche la capra non dava più latte.

            Si resero conto di quanto incoscienti erano stati per aver voluto  un figlio senza la possibilità di farlo crescere e addirittura di farlo sopravvivere senza che morisse di fame.

            “Non ci resta altra da fare, che portarlo a Caneva alla bussola degli esposti, disse una sera Bai, vedendo deperire sempre più la bambina. “ Non vorrei che avessimo sulla coscienza la sua morte e la dovessimo piangere per il resto della nostra vita”. L’idea gli era venuta ricordando la scoperta che aveva fatto entrando nella chiesa di quel paese e notando la bussola che c’era sulla facciata principale e che gli avevano spiegato serviva per consentire alle donne di abbandonare i bambini frutti di gravidanze che non avevano voluto.

            Parlò così con il cuore straziato , seduto sulla panca a fianco della porta della loro casupola, alla moglie che gli si era seduta accanto, uscendo dalla stanza ove aveva lasciato la bambina che non era riuscita a far smettere di piangere.

            “Purtroppo ci ho pensato anch’io disse lei con il cuore in gola, sforzandosi di trattenere le lacrime per fare coraggio al marito. Ma invece che nella bussola a Caneva la lascerei a Cazzaso sulla strada che porta in Mercelie. Vi passano tante donne, mattina e sera per andare ad accudire le bestie. E’ un paese di buona gente. Sono sicura che ci sarà una mamma che la raccoglierà per allevarla come fosse sua figlia.

            “Mi pare una buona idea!” mormorò Bai e senza interporre indugi,  nella luce del tramonto che indorava la vetta del monte Dobis, prese la cesta con la bambina e scese a deporla sulla strada per Marcelie, ai piedi della Maina al bivio del sentiero che porta in Barbùnies.

            Fra poco sarebbero rientrate le donne con il latte della mungitura serale e non avrebbero potuto non notarla.

          

  Invece che nascondersi per vedere la donna che avrebbe raccolto suo figlia, Bai risalì a consolare la moglie.

            “Ma dovevi fermarti!” lo rimproverò lei.

            “Non voglio sapere quale sarà la famiglia che supplirà alla nostra incapacità di fare i genitori. Voglio solo essere sicuro che è finita nelle mani di una madre generosa che non ha resistito al suo pianto. Prima che si faccia buio scenderò di nuovo a controllare se tutto è andato come abbiamo immaginato.”

            Scese infatti e nelle prime ombre della notte vide che la cesta era sparita con la bambina e si mise il cuore in pace sicuro che sua figlia era stata adottata. Tornò a riferirlo alla moglie e piansero assieme tutta la notte e le notti successive finchè si rassegnarono nella convinzione che la loro Biancaneve oltre all’amore che loro avrebbero voluto darle, aveva trovato qualcuno disposto a darle, ciò che loro non potevano darle, perché purtroppo nella vita non sempre e non solo bastano le parole e i sentimenti.

            In effetti nell’ora trascorsa tra la prima e la seconda discesa di Bai era successo il miracolo. Ma un miracolo ancora più sorprendente rispetto a quello in cui aveva sperato lui con sua moglie.

            Era appena ripartito dopo aver abbandonato la cesta e dato a Biancaneve che non smetteva di piangere, l’ultimo bacio di addio, quando passò di lì tornando da Cazzaso, una squadra di sette Sbilf.

            Avevano appena saputo che Blesòt il proprietario del piccolo stavolo di Barbùnies, era stato chiamato a fare il militare ed era partito per andare in guerra. Arrabbiato con il Governo e con il Destino aveva deciso di lasciare lo stavolo ai suoi animali per cui in Barbunies c’erano pecore e capre, conigli e galline, ormai allo stato brado. Gli Sbilfs avevano così avuto l’idea di andare ad abitarvi assieme a agli animali.

            Arrivati alla Maina al bivio da cui diparte il sentiero che sale a Barbùnies, sorpresi a sentire il pianto disperato di Biancaneve, restarono di sasso davanti alla cesta nella quale si agitava la piccola bambina.

            Senza esitazione il caposquadra Dotto esclamò: “La portiamo con noi. Disgraziati quegli umani che mettono al mondo dei figli e poi li lasciano per la strada senza farsi carico di aiutarli a crescere”

            Detto fatto. Ma anche in sette, degli Sbilfs molto più piccoli di quella piccola  bambina avrebbero potuto trasportare la cesta che la conteneva.

            A meno che…da giorni si sapeva che il Principe degli Sbilf di Marcelie, studiando la storia antica degli Sbilfs aveva scoperto la formula magica  che in passato aveva consentito loro di trasformarsi  in umani.

            Prima si sapeva che bevendo l’aqua pudia di Lorenzaso potevano trasformarsi in animali a scelta e così, convivere con gli umani. Ma la possibilità di trasformarsi proprio in umani era parsa sempre un’ idea da doversi  escludere. Fino a qualche giorno prima, quando era stata annunciata la scoperta che invece la trasformazione era possibile e bastava pronunciare a un formula magica per farlo.

            Ma nessuno ci aveva ancora provato. Ai sette bastò uno sguardo ‘intesa per comunicarsi a vicenda che quello era il momento per provarci, e quindi provare a recuperare la bambina abbandonata dagli umani.

            “Schiarazzule Marazzule” gridarono ad una voce e come d’incanto si trovarono trasformati in umani. Non proprio! Avevano le dimensioni dei ragazzi degli umani, ma comunque più che sufficienti per mettersi tre al lato destro della cesta e tre a quello sinistro, con Dotto a fare da guida e mettersi sul sentiero che porta a Barbunies, con Biancaneve che, forse sorpresa o forse perché cullata dal dondolio della cesta aveva smesso di piangere.

            Forse portata da qualche cacciatore ,a Cazzaso si diffuse subito la notizia di ciò che stava avvenendo nello stavolo abbandonato da Blesot: c’erano sette gnomi che portavano a passeggio una bambina in una carriola. Il capo-frazione sulle prime pensò di avvertire il Sindaco, ma si intromise il pievano a dire che quanto stava capitando non poteva che essere opera del demonio. Per non avere spiacevoli ritorsioni sul paese da parte di Satana era  meglio stare alla larga, scegliere la strada dell’omertà e mantenere il segreto.

            Fu così che Biancaneve potè crescere indisturbata, accudita da sette piccoli uomini che facevano a gara ad essere servizievoli nei suoi confronti. Blesòt non si era mi fatto più vedere. Forse perché morto in guerra. Non aveva lasciato eredi che vantassero il diritto di proprietà. E se anche ne avesse avuto, certamente non si sarebbero fatti avanti per contestare al demonio l’occupazione abusiva dello stavolo di Barbunies.

            L’unica variante alla vicenda era che i cacciatori, passando da quelle parti, pur senza avvicinarsi troppo, di anno in anno riferivano che la bambina non andava più in carriola, ma scorrazzava per i prati e che poi era diventata una bellissima signorina. Per mantenerla i sette nani non avevano problemi curando le bestie e l’orto che aveva lasciato Blesot. Restava un mistero come facessero a trovare  i vestiti per adeguarsi alla sua crescita. “Per vestirla come fosse una Principessa” riferivano i cacciatori.

            “Ma il demonio può quello e altro” continuava a spiegare il pievano. Erano invece gli Gnomi a non sapersi spiegare come sarebbe finita la storia di quella signorina che non aveva mai abbandonato lo stavolo di Barbùnies, ma che non poteva certo trascorrere il resto della vita, isolata assieme a loro. Le avevano procurato tanti libri, da bambina le avevano insegnato a leggere e a scrivere e poi crescendo avevano discusso con lei quanto andava leggendo. Avevano assecondato le sue curiosità avevano fatto per lei quello che dovrebbe fare un buon maestro: insegnare ad imparare.

            Ma ora che era diventata una donna?

            Che il seguito sia stato opera del demonio o del Destino non è dato a sapersi ma è certo che quel che avvenne fu ancora più sorprendente di quanto era già stata originale la vita di Biancaneve.

            Il monte  Diverdalce era stato scelto dagli appassionati di volo a vela per lanciarsi con gli aquiloni e librarsi nel cielo della conca tolmezzina. Un giorno uno di questi sorvolando i prati di Barbùnies perse quota a fu costretto ad atterrare, finendo proprio vicino a Biancaneve che stava leggendo  un libro su una panchina che gli sbilfs le avevano costruito sul prato davanti allo stavolo.

            L’aquilonista ebbe appena il tempo di sorprendersi dallo spavento che aveva avuto per per la perdita di quota che restò incantato dalla bellezza di quella ragazza che s’era trovata davanti, come una apparizione inaspettata.

            Balbettarono qualcosa a dire della reciproca sorpresa poi si sciolsero a parlare come fossero state due persone che si erano conosciute da sempre. Il rossore sulle guance di Biancaneve diceva l’emozione di fronte a quel giovane sceso dal cielo, il giovane non sapeva chi ringraziare per il sentimento che sentiva crescere nel suo cuore.

            Dopo un paio d’ore s’erano già giurato amore eterno e avevano deciso di sposarsi .

            “A chi devo chiedere la mano?” chiese lui.

            I sette Sbilfs che avevano seguito la scena chiusi nel fienile, sobbalzarono, non era chiaro neppure a loro, se per la gioia a vedere come il destino aveva risolto il problema del futuro di Biancaneve o per il dolore al sapere che l’avrebbero persa.

            “Uscite fuori” disse lei intuendo che si erano nascosti a seguire gli sviluppi della vicenda, e li presentò dicendo “Questi sono i miei tutori. So che vogliono solo la mia felicità e quindi non c’è bisogno di chiedere loro se approvano i sentimenti che istintivamente ci hanno uniti”

            Nel discorso lei aveva un po’ spiegato la sua strana situazione , la sua strana vita, ma al vedere i sette gnomi, Ettore, così si chiamava il bel giovane sceso dal cielo, non potè trattenersi dal ridere, scusandosi poi dall’averlo fatto.

            “Son successe cose oggi cose che neppure la fantasia di un romanziere di grido avrebbe saputo immaginare” commentò e risero assieme tutti e nove.

            Ettore era il figlio di un importante imprenditore della zona. Era laureato e lavorava già con suo padre, che si dimostrò entusiasta per la scelta del figlio quando conobbe Biancaneve. Meno entusiasta la moglie che andava fiera della sua bellezza e che rimase colpita dalla bellezza di quella che sarebbe diventata la sua nuora. Non era la madre di Ettore. Era figlio di un primo matrimonio e con lui aveva sempre avuto rapporti da matrigna che peggiorarono all’arrivo di Biancaneve. Una giovane che emergeva e si faceva ben volere in ogni ambiente, unendo alla bellezza un grande empatia.

            Ma si vedevano molto raramente. Ettore aveva un bellissimo attico a Udine con uno splendido panorama verso tutte le montagne della Carnia, alle quali guardava sempre Biancaneve con grande nostalgia, pensando ai suoi Sbilf. Suo padre viveva sulle colline di Moruzzo. Non c’era motivo per cui la suocera nutrisse una crescente morbosa gelosia nei confronti della nuora.

            Eppure. Cosa che nessuno aveva previsto perché non aveva nessuna giustificazione, nell’animo della suocera stava covando e diventava sempre più impellente e devastante il desiderio di eliminare la nuora.

            Fu così che una sera in una cena in famiglia versò del veleno nel bicchiere di Biancaneve, ma in un gesto d’amore i due giovani sposi si scambiarono il bicchiere. La matrigna, presa di contropiede non potendo autodenunciarsi, non potè arrestare il Destino che, per sua mano, uccideva il figliastro.

            Talmente assurdo il gesto che nessuno pensò di indagare e il Destino si prese la colpa d’aver stroncato la vita di un giovane nel fiore degli anni, di aver infranto il sogno di Biancaneve di vivere una vita normale con un marito e dei figli.

            Pianse Biancaneve per la perdita di Ettore almeno quanto avevano pianto i suoi genitori costretti ad abbandonarla, ma poi si convinse che l’unico modo per elaborare un lutto è quello di dare un senso in positivo a ciò che resta, quando il Destino ci ha tolto qualcosa.

 

            La storia finì così di nuovo in Barbunies, in una bella villa che Biancaneve, con i soldi della vendita dell’attico in città, s’era costruita al posto dello stavolo di Blesot, dopo aver acquistato dal Demanio, (in mancanza di legittimi proprietari), tutti i terreni del bellissimo pianoro da dove lo sguardo spazia su tutta la conca tolmezzina e sulle montagne che la circondano.

            Una villa con accanto una fattoria didattica ove gli Sbilf in forma di Gnomi allevavano tanti animali, coltivavano tanti tipi di piante e di fiori.

            Una villa dove Biancaneve decise di tornare a vivere pe godersi l’incanto delle sue montagne e il piacere della compagnia dei suoi  Sbilf.

             I sette infatti avevano scoperto  che la formula magica serviva in un senso e nell’altro: per diventare gnomi e ridiventare Sbilfs. Così come d’abitudine gli agricoltori si cambiano d’abito quando escono dalla stalla per entrare nella casa, loro si cambiavano di costituzione: Gnomi nella stalla ed in campagna, Sbilfs capaci di volare come uccelli nella villa.

            E come gli uccelli con il loro canto deliziano l’udito degli umani, così loro cantando le melodie che venivano dal mondo e dalla storia degli Sbilf, allietavano le giornate di quella che era diventata la loro padrona di casa.

            Su invito di Biancaneve i ragazzi di tutte le scuole della Carnia venivano a trascorrere alcuni giorni per imparare che  il senso della vita sta nel realizzare se stessi vivendo  secondo natura, a capire quanto grande fosse la  fortuna riservata loro dal Destino per averli fatti nascere in un posto meraviglioso come la Carnia e non in uno squallido condominio di città.

             Un angolo di verde, la Carnia, che nei giorni trascorsi assieme a Biancaneve, imparavano ad  amare per immaginarlo come il luogo ideale ove pensare  di costruire il proprio progetto di vita. Perché, continuava a insegnare loro Biancaneve, non c’è nulla di meglio per essere felici che poter vivere con chi si ama in un luogo che si ama.

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mercoledì 8 ottobre 2025


Il disastro di Monte Croce.

            Dopo ingenti lavori di sistemazione della frana del Pal Piccolo che incombe sulla strada il passo è stato nuovamente chiuso per riprendere i lavori. Se è vero ciò che dicono i geologi sarà questa la modalità dell’agibilità del passo.                                                     E’ evidente così che chi programma un viaggio, deciderà  per un percorso alternativo e il Passo uscirà dagli itinerari, finirà nella memoria.

            Mentre si sta discutendo su come salvarlo il malato non può che morire.

            La cura da cavallo sarebbe il traforo, ma ci vogliono 15/20 anni per realizzarlo e intanto?

            Perché non scegliere, come cura di pronto intervento la ripresa dell’’itinerario scelto dai Romani, con i mezzi che a quel tempo non c’erano?

            Lasciamo che scelgano i tecnici, la soluzione più idonea..

            Ma ora, prima che sia troppo tardi

            . Una Carnia in agonia non può sopportare la mazzata che le viene dalla chiusura del passo. I secoli di chiusura del passo hanno visto il declino della Carnia perché la sua storia è stata legata a quella del passo.

            Purtroppo però il disastro già innescato dalla frana del Pal Piccolo  è quello sociale, è il fatto che nessuno prenda una bandiera  al grido di “ non si può lasciare morire il passo” Non sindaci non comitati di base.

            Come se la Carnia avesse già accettato l’eutanasia.

            Ai miei tempi ci fu un’ insurrezione popolare per chiedere che fosse mantenuto il treno Carnia-Tolmezzo.

            Non si ottenne nulla!

 Ma almeno si dimostrò che la Carnia era ancora viva. Oggi, per chiedere che il passo sia mantenuto aperto,( e non a singhiozzo) non si sente neppure la flebile voce (un salùstri!) che potrebbe venire da un moribondo .prima di esalare l’ultimo respiro.

  da

      

 https://cjargne.online/il-disastro-di-monte-croce/

martedì 23 settembre 2025

Via Bonora Maria Agata Vidoni a Tolmezzo.

 

           


            L’intitolazione di una via dovrebbe essere un atto adeguatamente ponderato, soprattutto quando riguarda personaggi o fatti della storia locale perché dovrebbe scaturire  dalla volontà di testimoniare qualcosa sul passato e lasciare un esempio ai posteri.

            Per questo al Sindaco di Udine ho contestato la intitolazione di una via al partigiano Romano Zoffo originario di Amaro perché se è vero che è morto per la reazione dei Cosacchi alla pretesa di farsi consegnare le armi, è altrettanto vero che in Carnia è stato destituito da Comandante di Brigata per i suoi comportamenti troppo violenti.

            Ma venendo a Tolmezzo, una delle ultime intitolazioni è quella d’ una via nel quartiere di Betania a Bonora Agata Vidoni.

            Chi era costei? Si saranno chiesto i primi residenti e si chiederanno i residenti futuri.

            Il suo nome è legato alle vicende con le quali viene raccontato il funerale di Renato Del Din.

            Sottotenente degli Alpini, dopo l’otto settembre del 43, come molti altri soldati aderì alla resistenza  nelle file della Osoppo di stanza al castello di Pielungo.

            Da lì è salito con alcuni compagni per una azione dimostrativa contro la caserma della Guardia confinaria, (ora Uffici municipali di Via Linussio), azione dimostrativa per sollecitare i tolmezzini a ribellarsi alle autorità fasciste e naziste che controllavano il paese.

            Il piano prevedeva una sparatoria e una ritirata attraverso via Cascina e poi per Pra Castello, come hanno fatto i suoi compagni. Per errore lui ha imboccato l’attiguo ingresso al cortile dell’Albergo Alle Alpi è stato quindi raggiunto e colpito dai militari usciti dalla caserma attaccata.

            Portato all’ospedale è morto e il suo funerale è entrato subito nella leggenda. Ne parla per primo Michele Gortani nella relazione sulla Guerra di Liberazione in Carnia uscita con il titolo di Il Martirio della Carnia già il 30 maggio del 1945 per le edizioni La Panarie.

. I funerali diedero luogo, due giorni dopo, ad una dimostrazione grandiosa di popolo. Migliaia di donne tolmezzine e non pochi uomini, dopo avere onorata e coperta di fiori la salma la vollero scortare al cimitero in un interminabile corteo, sfilato lungo le principali vie cittadine. Fascisti e nazisti, furibondi per l’inequivocabile significato politico della dimostrazione fecero inchieste e punirono ufficiali e funzionari.

             Gli fa eco, (o lo precede) Chino Ermacora che nell’epopea sulla Resistenza in Carnia uscita nell’agosto del 1945  con il titolo La Patria era sui monti, scrive:

            Le autorità tedesche, per farla finita, ordinarono che il trasporto funebre di quel “bandito” si svolgesse la mattina per tempo, in forma clandestina seguendo un itinerario periferico…

            Al bivio dove la strada dell’ospedale dirama nella via centrale, il clero sostò incerto il capitano dei carabinieri ad evitare rappresaglie consigliò di seguire almeno l’itinerario voluto dalle autorità.

            “No, risposero le donne, (che erano accorse in massa anche dai paesi della Carnia) per le vie cittadine dobbiamo passare”. Una ragazza, con piglio franco, afferrò i cavalli alla briglia e li guidò verso il centro.

            E’ il gesto che avrebbe compiuto Agata e che le ha meritato la intitolazione.

            Michele Gortani, per la seconda edizione del suo libro che uscirà postumo, non modifica il testo ma aggiunge una nota e scrive:

            Il ten.Renato Del Din ufficiale dell’Ottavo Alpini, al comando di una pattuglia attaccò la caserma della milizia fascista alle ore 23 del 24 aprile e spirò all’ospedale di Tolmezzo la mattina del 25 alle ore 5.30. I tedeschi avevano stabilito che il funerale fosse modestissimo e quasi clandestino, ma il popolo si ribellò. Si trattava di un Alpino, per di più dell’Ottavo, e la salma doveva essere convenientemente onorata. Una giovane ardimentosa, prendendo per la briglia un cavallo del carro funebre che stava per imboccare la strada di circonvallazione, lo fece deviare per la via principale, che mena al centro cittadino.

            La notizia sulla giovane ardimentosa gli deriva dall’aver letto Chino Ermacora per cui  la ragazza di Ermacora diventa la sua giovane ardimentosa o ha avuto qualche tesstimonianza al riguardo?

            Per questa nuova edizione è certo comunque che Gortani aveva fatto ulteriori ricerche. Sul fatto specifico, in particolare. aveva chiesto una testioninanza a Don Carlo Englaro che al tempo era capellano a Tolmezzo. Lo conferma la lettera di risposta conservata nel suo archivio (fascicolo 50), che Gortani. In nota  (n.3) trascrive  così:.

            Il capitano dei carabinieri Santo Arbitrio, redarguito per non essersi opposto con le armi alla deviazione del corteo, rispose che mai avrebbe fatto sparare sulle donne e venne trasferito pochi giorni dopo nell’interno del paese .

            Ci fu un’ inchiesta a carico del Parroco e dei capellani che avevano officiato il funerale, il comportamento del capitano dei carabinieri fu invece subito punito con il suo trasferimento.

            Che il capitano non avesse altre possibilità se non quella di sparare sulle donne per impedire la deviazione del corteo è evidentemente una esagerazione, resta il fatto che il capitano non ha impedito, come avrebbe potuto, che si disattendesse alle disposizioni impartite sulla celebrazione del funerale in forma semplice, e quindi come scrive Gortani e come è confermato dalla stato di servizio del capitano, ritrovato da Matelda Puppini e pubblicato nel suo blog, per punizione fu trasferito.

            A dimostrazione che i ricordi subiscono un processo di elaborazione nel tempo, Luigi Valle ha scritto e firmato una dichiarazione sostenendo di aver partecipato come chierichetto

al funerale organizzato dal cappellano don Egidio e gestito dai ragazzi dell’Azione Cattolica, senza nessuna partecipazione di donne.

            Ma si può quindi provare a capire come si è svolto il funerale?

            La risposta sembrerebbe arrivarci da un altro documento ritrovato ancora una volta dalla brava storica ricercatrice Matelda Puppini e pubblicato sul suo blog intitolato “Nonsolocarnia”. Si tratta di una relazione  sul funerale fatta dalla Regia Prefettura di Udine  al Ministero Interni datata 3 maggio 1944.

            Purtroppo però la relazione al Ministero è composta da due parti in evidente contrasto tra loro. Nella prima si dice che il Commissario Prefettizio aveva ordinato che il funerale si tenesse al mattino “senza alcuna pompa. Senonchè alle ore sette precise un migliaio di donne si facevano trovare davanti all’ospedale e si accodavano al carro funebre obbligando ad un certo punto il conducente del carro a deviare l’itenerario prestabilito e costringendolo a trasportare il cadavere in Chiesa per la benedizione”.

            Nella seconda parte invece si dice che “contrariamente a quanto disposto dal Commissario Prefettizio di Tolmezzo, l’Arcidiacono don Ordiner fece suonare le campane a morto, fatto a suo dire integrante della funzione religiosa, intervenne al funerale facendosi precedere dalla Croce, dal Clero e da una ventina di ragazzi, benedisse la salma nella Chiesa Parrocchiale adducendo che la cappella dell’ospedale non è officiata né officiabile per esequie presente il cadavere”

            Nella nota già citata Gortani  aggiunge il breve colloquio intervenuto tra Mons. Ordiner e il Comadate il presidio che gli aveva riportato il coadiutore don Carlo Englaro in risposta alla sua richiesta di maggiori dettagli sull’episodio:

            Il Comandante: “Perché avete fatto i funerali di quel partigiano: Risposta: “Perché è un cristiano”

            Il Comandante: “Perché con tanta solennità?”        Risposta: “A tutti i defunti vengono fatti in forma solenne”. Il Comandante: “ Anche se muore un tedesco?”             Risposta: “Certamente”

            Al coadiutore il Comandante chiese perché avesse partecipato anche’egli ai funerali ed egli rispose che non mancava a nessun funerale.  

            Quindi cercando i ricomporre i tasselli di questo mosaico di documentazione si ricava che:.

            Per decisione di Mons. Ordiner cui va riconosciuto il merito, il funerale è stato officiato da lui stesso accompagnato dai cappellani come cerimonia di prima classe che partiva dall’ospedale ma doveva  tenersi in Duomo, senza che fosse necessario alcun intervento per modificare il tragitto.

            Il capitano dei carabinieri Santo Arbitrio che avrebbe potuto opporsi non l’ha fatto. Il primo è stato richiamato il secondo punito.

            Il perché l’abbiano fatto, credo stia  nella considerazione di Gortani che il morto pur “ignotus” come si registra in parrocchia,  era vestito da sottotenente dell’ottavo reggimento alpini. Per lo stesso motivo si può pensare ci sia stata una larga partecipazione soprattutto di donne al funerale.

            Ma il gesto eroico che ha meritato l’intitolazione di una via?

            Cercando ancora di ricostruire i tasselli a lume di logica si può immaginare che all’altezza dell’attuale caserma dei carbinieri sia intervenuto il capitano a chiedere al parroco di non esagerare nella provocazione, di arrivare quindi in duomo dall’attuale via della Cooperativa non dall’attuale via Matteotti.

            Ci fu di coseguenza un momento di esitazione.  il momento in cui secondo Ermacora, che aveva ricevuto le informazioni “dalla giovinetta accorsa per prima a salutare la salma nella cappella dell’ospedale”,  il clero sostò incerto al bivio dove la strada dell’ospedale dirama nella via centrale.

            Ma “il clero” aveva già deciso e poi non si può modificare il percorso di un funerale intervenendo sulla carrozza, perché secondo le disposizioni del parroco, a quel punto la ventina di chiericchetti preceduti dalla croce e dagli uomini  (e c’era certamente qualche vecchio alpino dell’Ottavo!) avevano già imboccato l’attuale via Dante Alighieri.

            Forse questo stava spiegando il parroco al capitano quando Agata che seguiva il feretro, intervenne e prese le briglia dei cavalli per porre fine ad ogni esitazione.

            Ma non si trattò di un gesto eroico, rispetto ad una decisione presa dal parroco e lasciata passare se non addirittura condivisa dal capitano tant’è che da nessun documento risulta che la donna sia stata convocata a rispondere del gesto, mentre lo sono stati il capitano e il parroco.

            Se poi sia finita in campo di concentramento, come si dice nelle motivazioni per la intitolazione della via, bisognerebbe conoscere il come e il perché. Infatti allo stato della documentazione reperibile, è da escludere lo sia stato come conseguenza del gesto di impazienza, di fronte all’esitazione dei due protagonisti  che si stavano assumendo una responsabilità non da poco.

            Resterebbe da chiarire perché il gesto viene attribuito da Gortani a “una giovane ardimentosa”, da Ermacora a una ragazza, mentre Agata nata nel 1893 all’epoca dei fatti aveva cinquanta anni. A quei tempi, a quell’età si andava vestite di nero. Non era certo comunque una  ragazza!

            Ma resta un dettaglio  secondario rispetto al fatto che a meritarsi  un riconoscimento per come si sono svolti il funerali di Renato del Din sono, senza ombra di dubbio,  il Capitano dei Carabinieri punito per avere da militare portato rispetto a un militare, e il parroco Mons. Ordiner che si è assunta la responsbilità di celebrare un funerale solenne per un giovane ritenuto dai  fascisti e  tedeschi  un “bandito” ma che, pur “ignoto”  per la divisa che portava era un ufficiale del glorioso ottavo reggimento alpini.

            Chino Ermacora completa il suo racconto parlando anche del gesto di una donna che avrebbe posto il cappello alpino sulla bara che poi fu calata nella fossa al grido di “Viva l’Italia” alzato da un’altra donna.

            Nella relazione al Ministero scovata da Matelda Puppini le due donne hanno un nome si legge infatti che.

            Durante il trasporto certa Midolini Lena collocò sulla bara un cappello alpino. Inoltre, nel momento in cui il feretro veniva calato nella fossa la signorina Dirce Nascimbeni salutò il cadavere del ribelle dicendo: “Salute, fratello d’Italia”, al che altre donne, non identificate, avrebbero risposto “Presente”.

            Come mai si fanno i nomi di queste due donne e non quella di Agata  che avrebbe compiuto il gesto coraggioso di deviare il corteo, per il quale si dice semplicemente che tante donne  si accodavano al carro funebre, obbligando ad un certo punto il conducente del carro a deviare l’itinerario prestabilito?

            Pensavo fossero questi i nomi delle donne riportati nella targa che  ora fiancheggia quella di Del Din nel luogo ove è stato ucciso

            Invece come “autrici del gesto coraggioso di sfidare l’occupante tedesco per dare una degna sepoltura all’eroe Renato Del Din”, assieme a Bonora Maria Agata, sono riportati i nomi di Menchini Sara, Cargnelutti Gentile, Marini Franca.

            Cosa hanno fatto per meritarsi una targa commemorativa? Forse sono quelle donne che, come scrive Ermacora, hanno posto il defunto nel carro funebre. Ma Ermacora parla di un gesto compiuto da una donna imprecisata “insieme con cinque compagne”, quindi se la innominata è Agata, dovrebbero essere cinque e non tre le compagne cui dedicare la lapide. Chi sono le due mancanti?

            E perché non aggiungere anche i nomi della Midolini e della Nascimbeni? Sara Menchini nel documento riportato da Matelda Puppini nel suo blog Nonsolocarnia, viene citata perchè  al ritorno dal cimitero, ebbe consegnate circa L.800 raccolte dalle donne che avevano costituito il corteo, allo scopo di ottenere dal comune la concessione di un’ara privilegiata per la sepoltura del capo banda.

             Ma Cargnelutti Gentile e Marini Franca da dove vengono fuori, cosa hanno fatto di eroico?

            Mi pare un pasticcio anche quello della targa alle donne coraggiose! 

            Un po’ come quello delle lapidi al ponte di Caneva dove, in contrasto con i parenti, si commemora come caduta accidentalmente, una donna uccisa volutamente da un partigiano reo confesso del gesto. Ma non sono iscritto all’Anpi e quindi non ho diritto di parola a riguardo delle lapidi apposte dall’Associazione.

            Ho invece voluto fare questa aggiunta perché mi sembra  cali ulteriore nebbia sulla storia di Agata e sul merito di trovarsi dedicata una via a Tolmezzo. E questo è un argomento che mi riguarda come cittadino di questo Comune.

            Nulla di personale naturalmente nei confronti di Agata e dei suoi discendenti che si sono fatti carico ed hanno ottenuto fosse intitolata una via alla loro parente, solo una legittima richiesta al Comune, da cittadino, a verificare come stanno realmente le cose perché come ho sctitto in premessa l’intitolazione di una via è un atto di grande significato che andrebbe adeguatamente ponderato.

domenica 23 febbraio 2025

 I due Gesù

    E' il titolo con cui ripropongo il romanzo !Quid est veritas - Che cosa è la verità, con l'ipotesi romanzata che Gesù non sia morto in croce. Come scrivo nella quarta di copertina.

Gesù non è morto in croce! Più che un romanzo una bestemmia! No! Senza nessun intento blasfermo un paradosso  per portare a una riflessione sulla idea che avevo  già anticipato nel libro intitolato 

“Io figlio di Dio”.

L’idea che la salvezza non è venuta, come dice San Paolo, dalla morte e resurrezione ma dalla intuizione-rivelazione che siamo figli di Dio (sinomino di Energia, Eternità e Infinito) e che quindi dovremmo vivere come fratelli.

In quanto tali, indipendentemente da come abbiamo sprecato la vita per avere, o l’abbiamo gustata  per essere, alla morte del corpo, siamo destinati a essere assorbiti per l’eternità nella dimensione dell’Infinito, a essere trasformati come dice anche San Paolo.

Questa la verità che rende liberi, come alla fine  scopre anche Pilato, alla ricerca di “Che cosa è la verità?”. Una domanda che aveva posto a Gesù e per la quale non aveva ricevuto risposta.

Il libro può essere acquistato solo in internet digitando Igino PIutti I due Gesù.



 

sabato 26 ottobre 2024

Il Cicloporto "Zoncolan" al casello autostradale Carnia di Amaro.

 

Progetto:  Il Cicloporto Zoncolan di Amaro

Obiettivo: Fare della Carnia una destinazione turistica di successo come paradiso delle-bike e mountain bike nellisola di verde sospesa tra lAdriatico e la Mitteleuropa ai piedi del kaiser Zoncolan.

Fase 1 – a) Rilevare la rete di strade forestali e strade secondarie che possono dare luogo a un circuito, rilevando  gli eventuali picoli interventi necessari per collegare i  circuiti.

b) Rilevare la rete di alberghi,agriturismi, B&B, affittacamere e rifugi escurisonistici che possono realizzare la rete di assistenza ai turisti.

c) attivazione ad Amaro del Cicloporto: la possibilità di lasciare la macchina ed avere a noleggio per più giorni un bici assistita o una mountan bike e di avere una assistenza a 360 gradi sia per chi noleggia che per chi si muove c on mezzi propri

Fase 2 – a) Riunire gli stakeholders sia pubbilci e privati in seminari di animazione per portare la rete a fare sistema.

b) Dintesa con Promoturismo lanciare una adeguata campagna di promozione pluriennale.

c) chiedere alla Regione alcune modifiche legislative senza costo come la possibilità di attivare Rifugi rscursionistici a bassa quota nei paesi ove manchi una osteria ottenendo il risultato di turisti che nel contatto con i residenti fanno turismo esperenziale e per i residenti di vivere, attraverso il contatto con i turisti,  lesperienza di paesi dove si vive in contatto con il mondo.

d) chiedere alla Regione  di realizzare dintesa con TIM un sistema a banda larga nel quale ogni punto del territorio sia interconnesso.

domenica 15 settembre 2024

Come è finita in Carnia l'estate di libertà di 80 anni fa.

 

                Per quel che vale, unisco anche io il mio grazie e l’encomio  all’Anpi provinciale per la festa del 14 settembre  con  il Presidente della Repubblica a celebrare l’ottantesimo anniversario dell’estate di libertà e la Repubblica Partigiana del Friuli.

                Ma ora che non c’è il rischio di passare per guastafeste, da curioso di storia, per amor di verità e per le riflessioni con cui andrò a concludere, desidero precisare come, (secondo la mia ricostruzione e salvo errori ed omissioni!),  sono andate veramente le cose durante quella che è stato definita “l’estate di libertà”.

                Nell’estate del 1944 la Carnia era controllata dai Tedeschi con un Presidio misto di 350 uomini chiusi a Tolmezzo da dove uscivano per sporadiche rappresaglie contro i 2000 partigiani che si andavano organizzando su un territorio che poteva definirsi libero.

                Anche se nessuno l’aveva liberato, perché  non non c’era stata, come ad esempio nelle  Valli del Torre, una vera azione per liberarlo. Era libero per il fatto che i Tedeschi si erano ritirati a Tolmezzo in attesa dell’arrivo dei Cosacchi.

                Comunque si poteva parlare veramente di una Zona Libera della Carnia, nella quale, durante l’estate, dimessisi o fatti dimettere i Podestà si organizzarono le elezioni per i CLN - Comitati di Liberazione Nazionale (17 giugno il primo ad Ampezzo) in tutti i Comuni, e anche in qualche frazione.

                Di solito la partecipazione alle  elezioni fu riservata ai capifamiglia, con il metodo utilizzato per la elezione dei consigli di amministrazione delle latterie sociali. Parteciparono quindi anche le donne, quando erano capifamiglia. Nulla a che vedere quindi con una anticipazione del voto alle donne che si avrà nel dopoguerra.

                 Questi organismi democratici  si unirono nei CLN di Vallata e quindi nel CLN Zona Libera della Carnia. L’organismo carnico si costituì  l’8 agosto con la partecipazione dei tre Presidenti dei Cln di Vallata e dei rappresentanti della Garibaldi-Osoppo. Anche nella Tolmezzo occupata  si formò in segreto il Sottocomitato del Cln carnico,  e nelle frazioni,  che invece rientravano nella Zona Libera, si costituirono i CLN di paese e le “Guardie del Popolo” .

                Su sollecitazione del movimento partigiano locale, in adesione agli inviti del Cln nazionale,,nella Zona Libera della Carnia si era effettivamente  dato  vita a una organizzazione che ricordava quella storica delle Vicinie nel Medioevo, riunite nei Quartieri e questi nella Universitas Carneae.

                Una iniziativa che ben a ragione potrebbe essere portata ad esempio a livello nazionale, del primo formarsi di un sistema democratico e che avrebbe titolo per essere definita come Repubblica partigiana della Carnia.

                 Ma le cose sono andate ben diversamente.

                A settembre infatti i rappresentanti dei Partiti Politici Udinesi hanno visto il vantaggio d’immagine che poteva venire loro dalla possibilità di mettere il capello  su quanto di bello dal punto di vista democratico si andava sviluppando in Carnia, Si sono quindi trasferiti ad Ampezzo hanno fatto dimettere (sic!) il Cln carnico sostituendolo con una Giunta di Governo costituita dai segretari dei partiti udinesi con l’aggiunta di qualche  carnico.   

                E’ questa Giunta di udinesi, insediatasi ad Ampezzo che prenderà il nome di Repubblica Partigiana del Friuli (non della Carnia, e tantomeno della Carnia e dell’Alto Friuli!) , iniziando ad operare il 26 settembre e continuando a riunirsi per soli 12 giorni...

                Cosa ci sia in questo che ci consenta di andare fieri come Carnici non so! Anche leggendo la spiegazione del fatto data da Lizzero  al convegno di Ampezzo nel quarantennale quando ricordò che, il coordinamento Garibaldi-Osoppo convenne sulla “opportunità e necessità di dare alla Zona libera una Giunta di Governo e di sciogliere quindi il CLN carnico, assolutamente incapace di far fronte ai giganteschi problemi presenti.

                Dall’intervento di Lizzero ad Ampezzo nel 1984 si ricava anche che il passaggio dal Cln Zona libera, alla Repubblica Partigiana era voluto dal PCI in qualche modo ad imitazione della Repubblica Partigiana di Caporetto, ma osteggiato  dalla Osoppo  e dai Cln, e in particolare da quello di Tolmezzo, contrario  a “rendere duratura la Zona Libera per non attirare le rappresaglie nemiche”.

                L’azione dei Tedeschi aiutati dai Cosacchi per riprendersi le Zone Libere, partì il giorno dopo la costituzione della Giunta di Governo di Ampezzo, il 27 settembre, nella Valli del Torre, con la distruzione dei paesi di Nimis Attimis e Faedis e il massacro della popolazione civile. Finita l’operazione nelle valli del Torre sarebbero arrivati in Carnia

                I carnici erano contrari ad andare allo scontro con i Tedeschi, condividevano la posizione dell’Arcivescovo Mons. Nogara  per il quale non aveva senso un conflitto di 2000 partigiani male armati contro 20.000 Tedeschi e Cosacchi armati di tutto punto, e che quini non aveva senso far subire alla  Carnia  ciò che avevano subito le valli del Torre.

                Ma è stata la Giunta di Governo degli Udinesi a decidere e a portare  la Garibaldi a scegliere  lo scontro armato,  e poi anche la Osoppo a prendere posizione contro l’Arcivescovo: “L’onore di combattenti non permette di ascoltare l’accorato appello de nostro Presule”.

                Il 6 ottobre Lizzero ad Ampezzo sospende la riunione del CLNZL, per leggere la lettera che il dott. Bearzi di Socchieve ha ricevuto, come tutti i parroci della Carnia, da parte dell’Arcivescovo, (lettera del 3 ottobre che il parroco di Imponzo aveva già portato a Candotti) il giorno prima, e propone di deferire Bearzi al tribunale militare perché l’invito del Presule a non andare allo scontro metteva il popolo contro i partigiani.

                Lo scontro armato iniziò  l’8 ottobre e durò praticamente un giorno nella valle del But con qualche altro giorno di “difesa elastica”, Durò poco, vista la sproporzione delle forze in campo, ma diede purtroppo ai Cosacchi il “diritto di guerra”, il potere cioè di rifarsi sui civili con ogni forma di angheria.

                 Non ci furono le distruzioni della Valli del Torre evidentemente perché i Cosacchi sapevano che le case e i  paesi erano stati assegnati a loro, erano la loro Kosakenland, ma fu saccheggiata la valle del But e furono stuprate tutte le donne che non erano riuscite a salire e nascondersi in montagna, ci rimise la vita il parroco di Imponzo don Treppo.

                Anche ora ci sono in corso delle “guerre di principio. Ma ho le mie riserve sul fatto che sia la guerra  la soluzione per risolvere ed affermare i “giusti principi”.

                Ma nello specifico della storia della Carnia ci tengo a precisare come sono andate le cose,  non per spirito di polemica, ma perché il ribaltamento del racconto  mi sembra sia all’origine anche di tanti mali della Carnia d’oggi.

                Invece che lamentarsi d’essere stati incastrati dagli udinesi, per un inspiegabile masochismo, i carnici hanno trasformato l’episodio in un fatto di cui gloriarsi e ne hanno fatto uno dei miti fondanti della cultura carnica del dopoguerra.

                Inseguendo i miti della Comunità Libera della Carnia, ci si è dimenticati che non c’era mai stata la istituzione Carnia, ma c’erano stati i paesi-vicinia, le organizzazioni di vallata. Si doveva ripartire dai paesi e invece si pensava alla utopia della Comunità tanto conclamata quanto mai veramente sentita, fino ad alzare il livello dell’utopia alla Provincia dell’Alto Friuli.

                Ma forse si è ancora in tempo a uscire dal sogno e, ricordando  che l’originalità della nostra storia, anche nella estate di libertà, è stata quella di  aver saputo partire dal basso, dai paesi, provare a mettere mano alla Carnia in agonia, ripartendo  dalla ricostruzione sociale dei paesi, pensando alle comunità di villaggio.

                Una ricostruzione bottom up e non top down direbbero i sociologi.!

               

martedì 25 giugno 2024

Il Passo di Monte Croce con la lente della storia.


             Le tre iscrizioni su roccia che testimoniano gli interventi a modifica della viabilità verso il passo di Monte Croce Carnico sono state studiate da esperti archeologi come  Sticotti, Gregorutti, Koban e Placida Moro, non si può pensare di poter far meglio di loro esaminando i testi con  nuove lenti.

            Mi piace invece  pensare che le epigrafi non siano state esaminate alla luce della storia, e quindi mi permetto un esame con questa lente.

          


  A pag. 54 della mia Storia della Carnia riporto il passo della storia di Quintiliano Ermacora nel quale si dice che:

fu proprio Giulio Cesare a curarsi di rendere transitabile, attraverso quel monte, la strada che prima presentava non poche dificoltà. Chiara testimonianza di questo fatto sono alcune lettere incise in un grande sasso quasi a metà della salita del monte che dicono appunto« Julius Caesar hanc viam inviam rotabilem fecit- Giulio Cesare rese carrabile questa strada impraticabile.»

           A ulteriore conferma Ermacora riporta il passo del De Bello Gallico nel quale Cesare racconta d’aver preso due legioni che svernavano ad Aquileia e d’aver raggiunto la Gallia ulteriore per il percorso più breve qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat.

            Ermacora, personaggio della vita politico.amministrativa di Tolmezzo alla fine del 1500, può aver interpretato male il passo di Cesare ma non può essersi imventata la esistenza della iscrizione sulla strada di Monte Croce. 

            Peccato che non si trovi l’iscrizione, ma è fuori di dubbio che i Romani abbiano reso carrabile questa strada, vista l’importanza che aveva sulla via dell'ambra per Aquileia e il passaggio verso il Norico ai tempi di Cesare e di Augusto, che determinò la importanza e lo sviluppo di Iulium Carnicum..

            Peccato soprattutto che della originale  strada non si trovi traccia, se non nelle tre iscrizioni che si vedono ancora.

            Ma la prima, nota come Respectus, è fatta risalire al 170 d.C. quindi a dopo la distruzione di Julium Carnicum ad opera dei Quadi e Marcomanni. 

Scrivo infatti a pag.64 che “nel 167 d.C. sotto l’imperatore Marco Aurelio si formò una coalizione di tribù germaniche che, sconfitti i Romani a Carnuntum, imboccò la via dell’ambra e giunse in Italia attraverso il passo di Monte Croce. Distrutta Julium Carnicum senza difficoltà, assediarono senza successo Aquileia, per spostarsi poi e prendersela con Oderzo che rasero al suolo”

            Sappiamo dalla storia di Roma che questi barbari furono poi respinti da Marco Aurelio ed è logico pensare che, in ritirata, abbiano distrutto tutto ciò che poteva rallentare l’inseguimento, in particolare i ponti. Furono così senza dubbio distrutti i manufatti che i Romani avevano realizzato per rendere carrabile la salita al passo. Tant’è che, come si intuisce da ciò che si può leggere nella prima iscrizione, questo Respectus fu chiamato a riattivare la transitabilità della strada.

            Vi provvide in particolare realizzando un ponte come si deduce dalla  seconda epigrafe nella quale si legge bene che  perilcitante populo ad pontem transitum non placuit al popolo non andava a genio di transitare sul ponte a rischio e pericolo.

            Da questa epigrafe si ricava che  130 anni dopo nel 300 ca. d.C, un tale Hermia che si descrisse “susceptor operis aeterni - impresario di un’ opera eterna”, pensò di aver risolto definitivamente il problema,

            Il ponte di Respectus era di legno mentre Hermia rifà quello di Cesare che era in muratura? Mi pare plausibile!

            Ma quale era questo ponte?

            Il tracciato più logico della strada di Cesare è quello che venendo dalla strada romana che arrivava da Iulium Carnicum in sponda destra del But saliva attraverso l’attuale strada che porta a Malga Val di Collina. La lasciava ad un certo punto per  attraversare la montagna in quota, verso il passo di Monte Croce.   Qui  però si presentava il problema  del superamento del costone roccioso noto come Malpasso o Scaletta. La soluzione che anche oggi si può immaginare è quella d’un ponte in salita.

            Probabilmente in legno quello di Respectus sostituito con uno  in muratura da Hermias, rifacendo quello  di Cesare demolito dai Barbari. Così si può spiegare l’enfasi che mette nella epigrafe che mette alla conclusione del suo lavoro consistente appunto nella sistemazione della strada romana su cui era già intervenuto Respecuts, con il rifacimento del ponte e qualche correzione nella parte sommitale nel Chiampeit, da dove la fece per poi proseguire verso il passo addossata per quanto possibile alle pendici del Cellon dove collocò la sua inscrizione, convinto d’aver fatto un’opera a sfidare la storia.

            Per Placida Moro che fa sua la cartina riassuntiva  di Koban, l’intervento sul ponte sarebbe avvenuto non al Malpasso ma nelle varianti introdotte da Hermia nell’ultimo tratto: “La nuova strada ad evitare il precedente passaggio del ponte poco sicuro, deviava a sinistra del valico, subito dopo la roccia da cui era protetta, raggiungendo l’altura a destra del rio Collinetta”.  Anche per Molfetta si trattava d’un ponte per attraversare il rio Collinetta. 

    Seguendo invece lo Sticotti si è pensato a un marchingegno per superare il Malpasso, il pons sublicius ponte sostenuto da pali. Io propendo per questa ultima ipotesi, senza però pensare a strani marchingegni ma a un ponte ad una arcata in salita.

  L’attuale sentiero al Malpasso infatti sale zigzagando tra due rocce che possono essere viste come la spalletta del ponte. Una più bassa ed una più alta con un dislivello tra le due di 15 m. ca. e una distanza di una ventina di metri. Modificare le quote per ridurre la pendenza e unire le due spallette con un ponte, credo sia stato problema alla portata degli ingegneri romani.   

      Come lo è stato poi per Hermia che si riteneva “fides operisque paratus - preparato dal punto di vista della fiducia in sé e di quello delle competenze  tecniche” , in altra parole d’uomo di fede e di ingegno e che  per questo “unanimes omnes hanc viam explicuit - nel compiacimento generale rimosse gli ostacoli di questa via”

            Sottolinea: «Gli ostacoli di questo percorso, non di altri!»           

            Ma il fatto nuovo che cambiò la pospettiva della strada del passo fu la divisione in due parti dell’Impero Romano, quello di Occidente e quello di Oriente.

             Come scrivo a pag 68,  “Il fatto ebbe un rilievo importante anche per la Carnia. Per la prima volta infatti sulle Alpi Carniche si stabilizzò un confine: il limite che divideva la Provincia della Venetia ed Istria da quello della Pannonia inferiore”

            Un confine concordato, che non doveva passare, come ora, sulle creste delle montagne, ma per il quale presumibilmente si scelse come “stazione di confine” la spianata  che non a caso porta ancora il nome di “vecchio confine”.

            È il luogo dove si trova la terza epigrafe! Che quindi va letta in questo nuovo contesto.

            Placida Moro fa giustamente notare la stranezza di una iscrizione a metà strada, quando, (come  le altre), di norma si collocavano alla fine dei percorsi  che volevano celebrare.

            La possibile e verosimile  spiegazione potrebbe stare nel fatto  che nel 373, sotto gli imperatori Valentiniani, qui c’era il confine. Si conferma così la interpretazione  come Vecchio Confine e non Vecchio Mercato dell'espressione Oltn Moarkt , il nome che nel linguaggio timavese viene dato alla spianata sottostante la casa cantiera, dove si trova la epigrafe. Interpretazione suggerita da Molfetta e ripresa dallo storico locale Mauro Unfer e dall'esperto di toponomastica Giulio Del Bon

            E qui, al confine appunto, si fermò Apinio Programmazio, con la nuova strada realizzata perché “homines et animalia cum periculo commeabant- uomini e animali transitavano a rischio e pericolo.”

            Ma se si è fermato a questo punto significa che i nuovi rischi non erano quelli del Malpasso, e comunque non erano i problemi che Hermias, a ragione, pensava di aver risolto, ma quelli che  si erano presentati in basso, (a Masareit?) forse a seguito della piene che avevano asportato la strada (come quella che nel 1729 costringerà addirittura a spostare l’abitato di Timau!).

            Una situazione certamente  preoccupante che decise  Apinio  a cambiare versante. Lasciò la destra orografica per salire a sinistra, sotto al Pal Piccolo, per poi, alla fine del suo nuovo percorso deviare per scendere di qualche metro, sotto l'attuale casa cantoniera, e  collegarsi con la strada esistente di Respecus ed Hermias (è il percorso del sentiero cai 161). 

            In questo modo si riabilita anche Hermia, che è stato sbeffeggiato per aver fatto una opera eterna, che dopo solo 70 anni si dovette rifare. Se le cose sono andate così, l’intervento di Apinio, non mise in discussione l’opera di Hermia.

              Se le cose sono andate così, l’intervento di Apinio, non mise in discussione l’opera di Hermia che durerà invece fino a quando altri barbari in ritirata ripeteranno la demolizione del ponte fatta dai Quadi-Marcomanni.

            Se le cose sono andate a questo modo,  a questo punto è verosimile pensare che  gli abitanti della Pannonia per raggiungere il confine che si era costituito verso la Diocesi italiciana, abbiano trovato più semplice realizzare una diretta che scendeva a incrociare la nuova strada di Apinio, invece che fare il giro per il Malpasso.

             Si  aprì  così quella che ancora oggi va sotto il nome di strada romana e che anche Carpenedo attribuisce ad Hermia (io invece agli antenati degli austriaci) e descrive bene dicendo che si “inerpicava con sei piccoli tornanti sul costone delimitato dalla forra nella quale scorre il rio Collinetta, fino a raggiungere la quota del passo”. Il percorso che è stata dissestato dagli interventi per realizzare i tornanti della strada moderna, e che andrebbe recuperato e risistemato.      

           Come ricorda il Grassi c’erano così due strade “una carreggiata l’altra pedestre. Quella conducendo per le pendici del monte Collina ascendea per quella di Collinetta alla cima del monte di Croce, questa comoda in oggi anche per cavalcare, senza staccarsi dal monte stesso, passava per il piano su cui tenevasi  tra Tedeschi ed Italiani anualmente un famoso mercato, chiamato perciò ancor oggidì in lingua alemanna Alta Mark, ciè mercato vecchio. Ma poi quale delle due strade sia la più antica non si può additare..

            Ma nel frattempo, almeno sotto il profilo economico e sociale era già iniziato il Medioevo, la strada che progetta Apinio non ha le caratteristiche di quella militare di Cesare o di quella commerciale della via dell’ambra. Il fatto che, come scrive, si preoccupi del passaggio degli animali, (homines et animalia cum periculo commeabant) ci fa pensare che forse era già iniziato l’utilizzo dei pascoli alti con le malghe: la strada doveva arrivare al confine, ma anche servire al transito del bestiame.

            Per questo  quella di Apinio che ci è rimasta con il nome di strada romana non ha nulla a che vedere con quella che deve essere stata la vera strada romana del periodo d’oro di Julium Carnicum e dell’Impero romano.

                                       La strada romana dall’Archeocarta fvg.

           .

            Una strada per la quale gli storici sono incerti anche sul nome. Il Gregorutti in Archeografo Triestino chiama Julia Augusta la via fino a Gemona poi propone il nome di Claudia da Tiberio Claudio

            Anche io (a pag. 53) propendo per il nome di Via Claudia, piuttosto che di Julia Augusta, come collegamento diretto tra Iulium Carnicum e Julia Concordia, sempre in riva destra del Tagliamento, per superarlo ad Amaro, prima della confluenza  con il Fella.

Da Amaro al Passo.

            Per il percorso da Julium Carnicum a Timau propendo per ritenere  (come riporto a pag 67) come principale,  quella che Alfio Englaro considerava una alternativa, quando scriveva che:

            La strada parallelamente o precedentemente alla Via Claudia o Carnica, partendo da julium Carnicum risaliva la sponda destra del But, raggiungendo Ognissanti (Sutrio), attraversava il Gladegna sul ponte Gjai e lambiva Cercivento per salire a Enfretors e raggiungere Ramazàs Valacòz e poi Cleulis.

            Salire sulla destra del But oggi sembra impossibile ma, come conferma il geologo Venturini si deve tener presente che la morfologia della valle del But è stata sconvolta dal conoide di deiezione del monte Cucco ad Alzeri

            Avrebbe cominciato a formarsi circa nel 3000 a.C in concomitanza con lo svuotamento del grande lago di Sutrio e Paluzza il cui livello delle acque era a 600 m.

            Ma poi, in epoca romana, (datazione sulla torba della centralina di Noiaris II sec.d.C.) l’espansione del conoide con relativo falsopiano verso ovest aveva finito per creare un nuovo invaso, seppure di più modeste dimensioni; il lago di Soandri con livello intorno al 540. Infine dopo il XV secolo si è determinata  una inversione di tendenza, probabilmente causata dallo svuotamento del Soandri con il rio Randice e la But che hanno dato inizio a una fase recente di approfondimento erosivo.

            Ma tornando alla strada che sale al passo, da quanto si è detto, è fuori di dubbio che la vera strada romana saliva sul versante di fronte al Pal Piccolo. Chiara indicazione anche per gli ingegneri moderni a evitare che le pendici in sfacelo del Pal Piccolo, ripetano la situazione del “periclitante populo”.

            Saliva con un percorso simile a quello che i geologi Venturini e Comin suggeriscono di seguire per realizzare una pista forestale che diventi pista di emergenza mentre sono  in corso i lavori di sistemazione dell’ attuale strada, o di quelli che si renderanno necessari per realizzare una variante come suggerito dall’ing. Puntel o di quelli di più lungo periodo che sarebbero necessari nel caso si trovasse un accordo per superare le difficoltà tecniche ed economiche che impediscono la soluzione radicale del traforo, ottimale da tanti punti di vista.

          

            Aggiungerei soltanto che, superate le emergenze,  la pista deve essere vista come ciclovia a carattere turistico-culturale e per questo realizzata d’intesa con la Soprintendenza archivistica per receperare e valorizzare i resti della strada romana.

            Non credo ci sia un modo migliore per valorizzare la strada storica che quello di una pista  realizzata facendo attenzione a recuperare i resti della vecchia strada da percorrersi  in bicicletta (meglio in e-bike!)  con la possbilità di fermarsi quindi ad ammirare i resti della strada antica messi in luce e valorizzati costruendo la pista.

            

 La ricostruzione delle varianti di H. Koban, ripresa da Placida Moro.




La strada del passo dal  Medioevo ad oggi.

 

            Si ha motivo di ritenere che nel Medioevo siano state mantenute in esercizio entrambe le strade per il ruolo che comunque continuava ad avere il passo.

            Nel 1077 è per merito del passo che il Patriarca Sigeardo ottiene dall’imperatore Enrico IV di diventare Vescovo-Conte di Aquileia.

            All’imperatore sceso a Canossa per ottenere la cancellazione della scomunica i Principi ribelli avevano impedito il rientro per i passi alpini. Fu Sigeardo che gli concesse il passaggio attraverso Monte Croce.

            Passo che ebbe una grande importanza sotto i primi patriarchi “ghibellini” generalmente di origine tedesca e quindi filoimperiali, in collegamento stretto con Salisburgo.

            La storia del passo ha invece avuto un cambio repentino nel 1250 con il Patriarca Bertoldo di Andechs-Pomerania che cambiò fronte e diventò “guelfo” filopapale, ma soprattutto, per quanto ci riguarda, decise di rendere carrabile la strada per il canal del Ferro, ponendo le basi per lo sviluppo che avrà in seguito Venzone e Gemona.

            Per i Patriarchi successivi, in gran parte italiani,  la Carnia diventò quindi una colonia marginale e periferica dalla quale riscuotere tasse, avendo Tolmezzo come centro per la riscossione.

            Il passo divenne quello dei Kramàrs prima e degli emigranti dopo, che, transitavano a piedi, al massimo a cavallo, e quindi non più carrabile per mancanza di manutenzione.

            Così con Venezia, come poi con l’Austria e infine anche con la Italia, quando si decise di intervenire sulla strada per il Mauria, (inaugurata il 1890).abbandonando Monte Croce.

            Passo di Monte Croce divenne la via dei Kramàrs con Venezia. Poi con l’Austria la via per gli emigranti muratori. Forse non era rotabile ma molto utilizzato a piedi, per gli stretti rapporti tra Carnia e Carinzia, (lo stesso Jacopo Linussio fa il garzone in Carinzia)

            E si arriva alla prima guerra mondiale quando il passo inciso tra il Cellon e Pal Piccolo torna purtroppo a diventare importante come fronte di guerra.

            Nel 1907 gli austriaci cominciano ad avere dei dubbi sugli italiani che davano l’impressione di voler cambiare l’alleanza e si prepararono al peggio sistemando la strada di accesso. Pieni di speranza di pace nella iscrizione che si legge ancora scrissero l’auspicio “Possa essa servire al pacifico transito dei vicini paesi”. Ma le cose andarono per diversamente!

            Gli italiani in guerra dovettero comunque accontentarsi della “via romana” sistemata e delle portatrici carniche. Il governo italiano non aveva data peso alla richiesta di far diventare nazionale la strada di accesso con le motivazioni ben argomentate dal Marchi riportate da Carpenendo.

            Scrive Gransinigh “alla testata della val but la situazione si presenta quanto mai fluida perché solamente all’ultimo momento viene deciso di portare la difesa principale sulle posizioni della displuviale anziché in corrispondenza della bastionata Monte Crostis-Monte Terzo.

            “C’era una totale assenza di carrarecce e anche di mulattiere.”

            Il capitano Gressel proprietario di Plochenhaus e capo di una sorta di guardia civile, il primo giorno di guerra sali al Pal Piccolo e “quando gli alpini timavesi scorgono il capitano si tolgono il cappello e gli augurano buongiorno” Sic!

            Nel dopoguerra finalmente la strada rientrò nei piani di Mussolini di rafforzamento dei rapporti con la Germania e venne decisa dallo stesso che aveva preso nelle mani il ministero  dei lavori pubblici.

            Il progetto fu approvato il 1929 e la strada inaugurata il 30 giugno 1933, stranamente senza alcun riscontro sulla stampa locale. Perché, penso, paradossalmente rientrava nei piani segreti di Mussolini di rafforzamento del confine contro la Germania con il Vallo Littorio.

            La ditta Paladini di Roma che aveva vinto l’appalto riportò al passo le tre scritte che i romani avevano lasciato sulle loro strade. La grande  lapide è sormontata dalla lupa capitolina donata dal “Governatore di Roma” così si chiamava il podestà della capitale.

            Le esigenze di carattere militare imponevano che ci si tenesse al coperto e si realizzò così a ridosso del Pal Piccolo, come riporta Carpenedo “una strada molto bella nel posto sbagliato”, a detta dello stesso direttore dell’Anas del tempo.

            Che sia nel posto sbagliato lo si capisce a vista, da profani, ma viene confermato dalle relazioni dei geologi “un mix calamitoso che solo per una congiuntura favorevole non ha innescato finora anche una tragedia.(Venturini)”

            Ma l’Anas ha deciso il ripristino, già in corso.

            Mentre il buonsenso richiederebbe una variante sul tracciato della “vera” strada romana e se possibile un traforo, come si era auspicato negli anni 70 con la costituzione da parte della Regione della Società per il Traforo il gemellaggio Tolmezzo-Lienz.

            Se il recupero della strada storica può avvenire come si è detto con una pista ciclabile, l’importanza che questa strada ha avuto per la storia della Carnia, (che non a caso per Molfetta prende il nome di “ Via Commerciale”) può essere recuperata solo con una soluzione alternativa a quella che ha costretto il “periclitante populo” moderno, per motivi militari, a sfidare le cadute massi del Pal Piccolo in sfacelo.

            Sia quella del progetto proposto già da anni dall’ing.Puntel, che si affiancherebbe alla pista ciclabile, o, ancor meglio, quella del traforo che non è andata in porto negli anni settanta del Novecento.

            Questo insegna la storia. Ma come scriveva Gramsci è una maestra senza scolari. Non vorrei che, “all’italiana” si dovesse attendere che “scappi il morto” per capire la lezione. Mi dispiacerebbe che in futuro il passo di Mone Croce Carnico finisse per rubare la fama al ponte Morandi.