Nella nuova edizione della mia STORIA DELLA CARNIA ho voluto inserire un capitolo completamente nuovo intitolato Carnia in Crisi che qui trascrivo per i miei lettori.
Facendo mia la
battuta di Giorgio Ferigo con la quale si chiude il capitolo precedente, nella prima edizione, avevo da un lato sottolineato
il male della Carnia, in crisi
perché travolta dalla frana demografica,
dall’altro, avevo fatto emergere una sorta di sconforto nella constatazione che
il male è incurabile, il movimento della frana inarrestabile.
Alla luce di questa considerazione,
in questa riedizione ho sentito la necessità di riprendere alcune osservazioni, a volte già accennate nei
capitoli precedenti, per un riflessione
complessiva sulla crisi. Sia sulle cause che sulle soluzioni. Senza la pretesa
di fornire una ricetta, ma limitandomi
a fornire degli spunti, a volte delle provocazioni, per rilanciare il dibattito sul
tema.
Il
fenomeno dello spopolamento, si è già visto, è stato studiato da Giovanni
Pittoni assieme a Michele Gortani, addirittura già nel 1932, quasi un secolo fa.
Un assestamento naturale era persino necessario, perché c’era stato un eccessivo
aumento della popolazione, rispetto alle risorse di cui dispone il territorio.
Ma Pittoni, che pur rilevava questo squilibrio, metteva in guardia perché il
segnale doveva già preoccupare, perché, a suo avviso, avrebbe potuto costituire
l’avvio di un fenomeno poi
inarrestabile. Sul principio di Macchiavelli per cui gli argini si devono
costruire prima che arrivi la piena, si chiedeva subito, assieme a Gortani,
quali potessero essere le cause e quindi quali i possibili rimedi per un
fenomeno che riguarda la Carnia, ma che interessa tutta la montagna.
“Causa
fondamentale dello spopolamento nella montagna friulana”, scrive Pittoni, “è il
disagio economico. La nostra regione di montagna non dà, e non può dare il
necessario alla vita se non a una parte dei suoi abitanti”. Il rimedio per lui
sta in un più razionale utilizzo del territorio, in un aumento della
produttività, in aumento quindi del reddito pro capite.
Anche
alla fine del Novecento si è continuato ad affrontare il problema dal punto di
vista economico, e sotto questo profilo in qualche modo si sono anche trovate
delle soluzioni, se, come ho già accennato, si riscontra addirittura un
fenomeno di pendolarismo alla rovescia. Da una recente indagine è emerso
infatti che sono quasi mille i posti di lavoro in Carnia occupati da persone
che quotidianamente salgono dalla pianura a lavorare in montagna.
Questo dimostra che, risolto il
disagio economico, il problema persiste e per questo presenta caratteri di
maggiore gravità. Qualcuno ha dato la colpa all’attrazione esercitata dai
territori della pianura, nei quali non si devono sopportare i disagi legati
all’orografia montana. Ma, per me, c’è di più, c’è all’origine una forma di “rifiuto” proprio della Carnia
che si è venuta formando nella storia. Si è finiti a volgere in negativo quello
che, nella storia, era stato l’orgoglio di sentirsi carnici.
Paradossalmente,
quello che era stato il sentimento d’amore per il proprio paese che aveva
indotto per secoli generazioni di Carnici a emigrare portando in paese i frutti
del peregrinare come “kramârs” e poi della
abilità nei mestieri pesanti del muratore o del boscaiolo, è diventato un
atteggiamento di rigetto. L’amore si è convertito nel suo opposto: è diventato
odio.
Da
quando e perché? Domande non facili, per le quali si possono ricercare risposte
in ambiti diversi. Non ultimo, tuttavia, anche in quello della storia.
Nel
capitolo precedente si è detto che la storia contemporanea della Carnia secondo
alcuni studiosi si può far partire dalla
istituzione della Regione a Statuto speciale nel 1963, per altri dal terremoto
del 1976. Ma, in più, ritengo si debba prendere in considerazione anche la
data del 1960, come propone l’antropologo Patrick Heady.
Non
è una data alla quale si possa collegare qualche avvenimento scatenante, ma è
negli anni attorno a quella data che la Carnia, a suo avviso, avrebbe subito
una radicale trasformazione dal punto di visto sociologico e addirittura
antropologico.
È
questa la conclusione a cui è arrivato con la sua tesi di dottorato al
Dipartimento di Antropologia Sociale della London School of Economics,
elaborata dopo una serie di soggiorni in Carnia tra il 1989 e il 1994 e
pubblicata a cura del Coordinamento Circoli Culturali della Carnia con il
significativo titolo di “Il Popolo duro”
L’idea che si è fatto Heady
del popolo carnico è quella di un popolo “duro”
che negli anni sessanta del Novecento “sta vivendo una fase di profonda
trasformazione caratterizzata dal fatto che
invidia ed egoismo assieme denotano uno stato di ostile e avida
competizione che minaccia di diffondersi nelle vita sociale”.
Molti, commentando la prima
edizione, ove già avevo riportato questa considerazione, hanno tenuto a dirmi
che con questa citazione avevo in qualche modo colto veramente l’essenza della “carnicità”. Per questo, alla
ricerca di suggerimenti per il presente, in questo capitolo della
riedizione, mi sono provato a rileggere la storia della Carnia anche alla luce di questa intuizione di Heady.
In sintesi la sua teoria é che la vita dura
della montagna ha fatto del popolo carnico un popolo “duro”, perché la
difficoltà nel garantire la sopravvivenza ha sviluppato il diffondersi
dell’egoismo e dell’invidia. La necessità di proteggersi dall’invidia ha
portato poi gli individui a chiudersi.
Perché “un uomo è “dûr” se resiste alle critiche e all’appello dei
sentimenti concentrandosi su se stesso e sulla propria famiglia, così diviene
“sierât” nei rapporti interpersonali.
Invece che fare dell’invidia un motore di sviluppo, lo stimolo a fare
meglio degli altri, il sentimento si è sviluppato in negativo, cioè come sforzo per impedire
agli altri “di diventare migliore di me”. L’invidia è diventata così la
capacità dell’invidioso di fare del male o comunque di impedire di fare
qualcosa, di “striâ”, di gettare il
malocchio.
Alcune persone vengono
individuate come particolarmente capaci di influire negativamente sulla vita
degli altri, di fare del male e vengono segnalate come streghe. L’incrociarsi
di questa attribuzione del potere di “striâ” da una famiglia all’altra,
determina un’atmosfera sociale soffocante ed invivibile
dalla quale si cerca di liberarsi abbandonando il paese.
In qualche modo anche la Chiesa locale
asseconda la teoria e le pratiche religiose diventano pratiche della
superstizione contro le streghe. L’ulivo, la cera benedetta, l’acqua santa
diventano amuleti da utilizzarsi per difendersi dall’invidia.
Nella edizione precedente ho riportato questa
analisi di Heady, ricordando la figura di Linussio, quasi a dire che, invece, chi riesce a sfondare la cappa
dell’invidia, nello slancio finisce per diventare un fenomeno di
intraprendenza.
Ma se questa
interpretazione può spiegare il fenomeno dei tanti emigranti carnici che si
sono affermati all’estero, allo stesso tempo può aiutarci, per converso, a
capire il fenomeno della fuga in atto.
Rileggendo la storia della Carnia alla luce
delle sue considerazioni antropologiche si possono individuare tre fasi
distinte.
La prima
è quella dei tanti secoli nei quali, abbandonata dai Patriarchi prima e da
Venezia poi, la Carnia si è venuta organizzando in autonomia. La seconda è quella dei tentativi fatti prima con l’Austria
e poi con l’Italia di adattarsi al nuovo ordine imposto da Napoleone e riconfermato dagli Asburgo. La terza è quella
che si sviluppa nel secondo dopoguerra, con la presa d’atto che la convivenza
in Carnia è impossibile e che è quindi preferibile abbandonare il territorio.
Forse a
partire già con i Longobardi e comunque poi con i Patriarchi e Venezia, la vita
sociale della Carnia si era organizzata avendo come punto di riferimento i
paesi. La viabilità era di norma difficoltosa, i collegamenti precari, e per
questo i paesi, facendo di necessità virtù, si erano organizzati come organismi autonomi e
autosufficienti.
Se, come ritiene Heady,
invidia ed egoismo sono gli elementi connaturali del carattere dei Carnici, la
comunione dei beni che caratterizzava i “Communs”, i paesi-comuni in qualche modo faceva sì che
gli effetti negativi del carattere si annullassero, o, al contrario, si
assommassero, per diventare il campanilismo che caratterizzava il confronto tra
i paesi. La rotazione annuale delle cariche impediva il prevalere di qualcuno
sugli altri. Il regime comunista della proprietà eliminava i confini motivo di attrito.
Il conflitto generato dal binomio invidia ed egoismo, assorbito all’interno
della comunità, si trasferiva a livello
del confronto tra paesi.
Con i decreti
di Napoleone che eliminò le Vicinie, ripresi poi dall’Austria con la messa in
vendita dei beni comuni e la introduzione della proprietà privata nei paesi, si ottenne il risultato di introdurre
all’interno del paese i confini che
prima erano tra paesi, introducendo i conseguenti conflitti.
Nacque
una Carnia diversa con i paesi diventati in breve un groviglio di tensioni e di conflitti.
Caratterizzati da questa conflittualità interna, i paesi affrontarono le due
guerre mondiali che esasperarono i contrasti. Nella prima si divisero tra chi
fuggì dopo Caporetto e chi invece decise di restare. Ma il rientro avvenne in
un clima di accuse su che cosa aveva rubato chi era rimasto in paese, e si arrivò
ad accusare i paesani anche dei danni provocati dall’esercito occupante.
Nella seconda guerra
mondiale quella che viene enfatizzata come l’estate di libertà è stata in
effetti l’estate delle vendette personali: bastava scegliere a chi si voleva
denunciare qualcuno accusandolo di qualcosa. A secondo dei casi, scegliendo tra
tedeschi e partigiani. Non per nulla i morti tra i civili di questa guerra locale,
sono stati più numerosi dei morti in armi.
Uscì dalla
guerra una società civile profondamente segnata dalla guerra. Ma, malgrado
tutto, i paesi mantenevano la loro vitalità interna. A tenerli assieme c’era
ancora l’economia di paese. L’attività, comune a tutte le famiglie, era quella
dell’allevamento del bestiame. La latteria era per tutti il punto di
riferimento e di incontro.
E c’era anche qualcosa in
più che andava oltre all’economia e che veniva dalla storia. È vero che per
colpa di Napoleone i paesi avevano perso
l’autonomia di cui avevano goduto precedentemente, ma fra le case si sentiva
ancora il fascino della identità di paese.
Lo si lasciava
provvisoriamente per necessità, perché così voleva il destino. “Perché è
naturale sia così”. Ma lo si lasciava
con rimpianto. Lo si pensava con nostalgia, lo si ritrovava a Natale con gioia.
È questo fascino che
viene dalla storia, questo sentire il paese come valore che fa ancora da collante.
Ci sono i conflitti tra persone, ma passano in secondo piano quando ci si deve
riconoscere nella identità di paese. Non c’è più la “Vicinia” con il Meriga, ma
c’è la latteria che ha come soci tutte le famiglie, con il Presidente che viene
eletto ogni anno nell’assemblea che è di fatto assemblea di paese, e c’è la
Società Operaia. C’è la chiesa con le sue feste, che hanno sempre meno un
significato religioso, ma che vengono sentite come manifestazioni della
identità del paese, ci sono le osterie, come centri sociali di aggregazione..
Negli anni sessanta del
Novecento invece c’è la svolta, la rottura. Per qualche motivo si rompe il
collante e viene a galla la società che
stupisce Patrick nella quale emergono l’egoismo e l’invidia. I pesi diventano
invivibili perché la vita della comunità si trasforma in un intrico di
conflitti, per ragioni economiche ma anche semplicemente per questioni di
principio.
Egli ha voluto vivere del tempo in Carnia per studiare la trasformazione,
io ho avuto modo di vivere da ragazzo la
Carnia durante quella che lui considera la fase del cambiamento. La sua
riflessione mi consente di spostare sul
piano generale anche le considerazioni legate alla mia vicenda personale.
Come rileva Heady,
“invidia e egoismo si associano a creare uno stato di ostile e avida
competizione che minaccia di diffondersi nella vita sociale.” Ne ho avuto la
prova anche io quando, non ancora ventenne, al fine di mediare, come estraneo
alle “beghe di paese”, sono stato eletto
Presidente della latteria in una assemblea assistita dai carabinieri a
rappresentare il clima che si era creato.
Anche io poi ho avuto
modo di riscontrare, soprattutto nella generazione dei nonni, il racconto d’un
paese ammorbato dalla presenza di dannati e streghe e quindi del clima di
difesa che istintivamente gli individui sentivano di dover erigere per
proteggersi dal “potere” dell’invidia.
È stata questa sensazione dell’atmosfera
mefitica che si respirava in paese, a fare da incentivo per abbandonare il
paese, a favorire favore l’emigrazione di massa?
Certamente non solo! Ma
forse anche! Si sono cercate le spiegazioni dal punto di vista economico e
sociale, ma forse ci si è dimenticati di esaminare questo “anche” e quindi
l’aspetto antropologico suggerito da Heady.
Nella sua interpretazione, il binomio negativo
invidia-egoismo che era stato in qualche modo superato nel valore che si attribuiva alla idea di
paese, pare quasi sia esploso e abbia
creato una repulsione, una sorta di ostilità e di odio verso tutto ciò che
rappresentava e ricordava il paese.
Heady assume il 1960 come data del verificarsi
del fenomeno. La data ha evidentemente un valore emblematico perché i
cambiamenti sociali maturano nel tempo, a meno che non sia legata a qualche
episodio scatenante. Non c’è nulla infatti nella storia della Carnia che possa
essere associato a quella data, a meno che non la si assuma come data
dell’arrivo del boom economico.
Comunque anch’io concordo con lui nell’affermazione
che nei decenni a cavallo di quella data la Carnia ha subito un cambiamento
radicale, si sono “determinati mutamenti radicali della società che hanno influito
sul senso dell’identità locale dei singoli individui”.
Non i tutti i paesi allo
stesso modo.
Paradossalmente il
cambiamento ha fatto seguito al modificarsi delle condizioni di isolamento, con
la realizzazione di una viabilità che “portava l’automobile” anche nei paesi
più emarginati. La strada, che avrebbe dovuto
migliorare le condizioni dei residenti, è diventata il canale attraverso
il quale si è introdotta la “modernità”,
intesa come un altro modo di vivere, con altri valori, che non erano quelli
della tradizione del paese, anzi erano l’opposto.
Per questo si arrivò a
rinunciare al paese, prima come rifiuto
del modo di vivere, poi come abbandono definitivo per trasferirsi altrove.
Significativa del cambiamento in atto è stata la foga, ricordata anche nel
capitolo precedente, con la quale in molti si sono voluti disfare della storia
della propria famiglia, rappresentata dal mobilio della casa.
Si cambiano i mobili regalando quelli di valore carichi di storia,
realizzati con il legno dei noci del luogo, da artigiani del luogo, in cambio
di quelli di formica colorata. La foga a sconfessare il passato, monta come la
nebbia nelle giornate di pioggia che sale e avvolge le case, e dai mobili si
passa al paese.
Quello che prima era
stato il “l’orgoglio di paese”, le tradizioni, le feste, la socialità
dell’osteria, diventano elementi negativi da ripudiare. Una storia di paese
fondata su legami di profonda empatia
che stupisce Heady, diventa una stupida guerra per cose da nulla che
diventano fatti “di principio”. Egli scopre tracce di questa storica e profonda
empatia che faceva da collante nei paesi, persino in alcune modalità della
parlata locale. Ad esempio nel salutare un nuovo arrivato con una battuta che
potrebbe sembrare senza senso: “Sestu rivât- sei arrivato?” invece del buon
giorno. Una battuta fuori della logica, ma che esprimeva il piacere con cui si
era atteso l’incontro, e forse anche l’apprensione, visti i pericoli che si
correvano spostandosi sui sentieri precari che univano i borghi.
Ma in analogia con ciò
che avviene in una famiglia che si sfascia
e vede trasformarsi i rapporti di amore in
sentimenti di odio, così nel paese che si è rotto, l’empatia, il sapersi
mettere nei panni degli altri, invece che amicale condivisione, diventa
intollerabile invadenza, pericolosa ingerenza. Secondo Heady, la diffidenza
arriva al punto di ritenere che ci siano negli altri capacità di trasmettere
influenze negative, di “striâ”, di gettare il malocchio.
Egli cerca una
spiegazione nelle teorie antropologiche. Ma forse la spiegazione è più semplice,
sta nel fatto che il paese si è sciolto, come direbbe Zygmunt Bauman, è
diventato “liquido” perché si è liquefatto il sistema dei rapporti, è cambiato
il modo di vivere il paese, perché è cambiato il modo di essere delle famiglie.
Un cambiamento che io ho vissuto e di cui
posso dare testimonianza, continuando a spostare sul piano generale le
considerazioni legate alla mia esperienza personale.
Sulle orme di mio padre,
nel 1960 mio fratello ha preso a fare l’emigrante. Io ho preferito cercarmi un
lavoro in Patria. Ma tra il modo di
emigrare di mio padre e quello di mio fratello (e di tutta la nuova generazione di emigranti),
c’era un abisso.
Prima gli anziani
vivevano all’estero nella nostalgia del ritorno, nel richiamo di un paese
sentito come un valore, addirittura un ideale. Negli anni sessanta del
Novecento si prese a emigrare come fuga dal paese. Abbandono. Rifiuto di un ambiente nel quale non si trovava più nulla
di apprezzabile che giustificasse il mantenimento di un rapporto, men che meno
che alimentasse sentimenti di nostalgia.
Per questo gli anni sessanta del secolo scorso
sono stati anni cruciali per la storia dei paesi. Il cambio radicale nel modo
di emigrare ha messo in moto la frana demografica.
Anche nell’immediato secondo
dopoguerra il fatto che gli uomini dovessero emigrare, che le donne dovessero
gestire l’azienda agricola, che i figli dovessero vedere il padre un mese
all’anno, come si è detto, era scontato, in qualche modo naturale. La nuova
generazione degli emigranti, quella dei nati negli anni a cavallo della seconda
guerra mondiale, ha invece radicalmente modificato il rapporto con il
territorio, proprio perché ha sentito l’assurdità del modo di vivere ritenuto
normale sulla base della tradizione.
Un’assurdità che emerge
dal confronto con i modi di vivere e di
concepire la vita con cui l’emigrante viene
in contatto all’estero. Si abbandona
quindi il paese. Definitivamente. Oppure investendo nella casa che, diventando
casa per ferie, diventa elemento per confermare il proprio successo ottenuto
fuori dal paese e malgrado l’invidia del paese.
Si trattava comunque
ancora di episodi, non in grado di modificare la realtà del paese. Solo quando ha deciso di partire anche
mia madre, ho capito che qualcosa stava cambiando in modo radicale e
definitivo. La sua decisione era una spia della rivoluzione in atto, messa in
moto dalla generazione di donne nate a cavallo della guerra e giunte alla
maggiore età appunto negli anni sessanta, che aveva contagiato anche lei,
sebbene d’un’altra generazione.
A cambiare la Carnia è
stata la decisione di queste giovani donne di rifiutare il ruolo imposto dalla tradizione
plurisecolare di “angelo del focolare”, che nella fattispecie e all’atto
pratico significava essere l’angelo della stalla, con la gerla al posto delle
ali.
Meglio
un lavoro anche a servizio, ma fuori dal
paese, fuori dalla stalla, finendo così quasi a identificare in negativo il paese con la stalla. C’è una immagine
emblematica che si ripete negli scatti di molti fotografi del tempo, quella
della processione di donne che portavano la gerla carica di letame. Una scena a
cui ho assistito più volte anch’io. Arrivate nel prato da coltivare si
piegavano in avanti e con un gesto atletico scaricavano il letame. In quegli
anni, con lo stesso gesto hanno finalmente deciso di scaricare e abbandonare sul
terreno anche la gerla!
C’è stato un tentativo di
intervenire con il rimedio delle stalle sociali che avrebbero tolto alle donne
l’onere di essere in servizio nella stalla, mattino e sera, per trecentosessantacinque giorni all’anno. Ma l’esperimento è subito fallito,
perché le rivoluzioni non si fermano a metà, il rifiuto delle donne a restare
nel solco della tradizione plurisecolare, si è consolidato e diffuso a macchia
d’olio e in breve tempo ha caratterizzato tutta la Carnia.
La
volontà di abbandonare il paese è stata una reazione al clima di cui parla Heady, all’asfissiante
controllo sociale che caratterizzava i paesi nei quali l’empatia si era
trasformata in invidia, la condivisione in
malanimo?
Oppure è derivata dalla
semplice constatazione che non aveva senso una vita di sacrifici troppo grandi,
ripagata da guadagni troppo miseri?
Forse da entrambe le motivazioni. Ma il saperlo è secondario rispetto alla
constatazione che dalla rivoluzione
femminile ha preso l’abbrivio la frana
demografica.
Che questa sia stata la
rivoluzione che ha cambiato la storia della Carnia appare evidente se si
considera il ruolo che la donna aveva nella società carnica del momento. Ai
tempi delle Vicinie si lavorava assieme nei “beni comuni” e i mariti “non
disdegnavano l’agricoltura” come scrive Quintiliano Ermacora, e quindi durante
l’estate aiutavano le mogli. Poi, dopo Napoleone, da un lato ci fu il passaggio
alla proprietà privata, dall’altro ci fu il cambio nel sistema dell’emigrazione.
Non più kramârs ma muratori, i mariti furono costretti a emigrare l’estate.
Le donne si trovarono
così ad avere la completa responsabilità della gestione dell’azienda agricola
familiare. Non a caso in Carnia la moglie per il marito non è “la mia signora”
ma la “mȇ paròne” la mia padrona. Titolare di fatto se non di diritto della
azienda-famiglia.
Si suole dire che “a ten
su trê cjantons” sorregge tre angoli della casa. È naturale che se cedono d’un
tratto tre angoli, cede la casa e, di casa in casa, cedettero gli angoli su cui
si reggeva il paese.
La lingua viene definita
l’anima di un popolo. Se questo è vero,
per la Carnia si dovrebbe dire che ogni paese si era costituito come popolo a sé.
Paesi confinanti, come s’è visto, avevano sviluppato una lingua diversa, nelle
cadenze e anche in certi termini. Una originalità che era diventata orgoglio di paese, il sentimento di
superiorità con il quale si faceva lo sfottò della lingua degli altri.
Ma poi arrivò il maestro
e nella sua casa si parlava italiano, arrivarono i cultori della lingua
friulana a dire che il friulano è un altro, quello della koinè. Ci si doveva
vergognare della lingua del paese, con le sue peculiari cadenze, con la sua originale
musicalità. Divenne elemento di
vergogna quello che era stato sentimento d’orgoglio!
La chiesa, prima ancora che
il luogo del culto e della religione, era
il monumento nel quale si identificava il paese. Nella costruzione che era
costata tanti sacrifici, perché la si era voluta più bella o più grande di
quella dei paesi confinanti, ma anche nel come la si viveva nel cerimoniale. Sulla
stessa base, ogni paese aveva sviluppato persino una variante, “ghenghe”,
diversa per i canti liturgici. Ma arrivò il prete da fuori e invece di
adattarsi al paese, obbligò il paese a rinunciare alla sue tradizioni. Nessuno cantò più la “messa
vecchia” nella variante del paese. Si introdusse l’obbligo del gregoriano, si
rinunciò al latino per l’italiano o addirittura per il friulano.
Le parole del latino
erano come quelle delle formule magiche, incomprensibili, ma cariche di significati
simbolici. Pregare in una lingua che non si comprendeva era come usare un
linguaggio che solo Dio poteva capire. ParlarGli conoscendo il contenuto del
messaggio, era perdere il senso del mistero che non può mancare nel colloquio
tra il finito e l’Infinito. ParlarGli poi usando il linguaggio del
quotidiano era svilire il colloquio con
Dio e ridurlo a livello del colloquio con il proprio vicino di casa. Perdendo
il modo di stare in chiesa che veniva dalla tradizione, si perdeva un altro
elemento che faceva l’originalità del proprio paese.
Un mattone alla volta si
demolì quello che per secoli era stato il valore del paese. Un mattone alla
volta, senza far caso al fatto che di mattone in mattone si stava demolendo la
casa.
Si è finito così per vergognarsi di aver
subito il fascino d’una poesia di paese che non si riconosceva più. “Il piccolo
mondo antico”, dove piccolo stava per bello, a misura di uomo, venne ad assumere
una luce diversa, piccolo divenne
sinonimo di soffocante, le storie del paese soltanto “piccole cose di pessimo
gusto”.
Appunto! Non solo “irrimediabilmente
attratti dalla pianura”, come titola Cristina Barazzutti, i Carnici sentono
proprio il bisogno di allontanarsi dalla Carnia, di rifiutare la sua storia.
Per questo sarebbe necessario proprio ripartire rimettendo in luce gli aspetti
positivi di questa storia, per andare orgogliosi, come ha fatto Linussio, di
essere carnici, per far capire anche alle nuove generazioni che il sacrificio
in più che comporta il vivere in montagna è un sacrificio che ripaga, perché
insegna ad affrontare la vita con maggiore determinazione, forma un carattere
più “duro”. Non nel significato rilevato da Heady, ma in quello di “callido et
sagaci ingenio - d’ingegno scaltro e perspicace” che già faceva rilevare Quintiliano Ermacora.
Duro, per una più determinata convinzione nei propri mezzi, nella propria
capacità di affrontare la vita.
A chiusura della storia della Carnia si potrebbe dire provocatoriamente
che non c’è stata nessuna storia perché
non è mai esistita la Carnia. Non è mai esistita quella che lo storico ed amico
Furio Bianco chiama “Comunità di Carnia”. Sono esistiti i paesi. Autonomi.
Volontariamente legati tra loro in aggregazioni di vallata: i Quartieri. Se
dalla storia si vuole imparare qualcosa che possa servire per il futuro, si
deve ripartire da questo fatto, si deve imparare a ripartire dai paesi. Solo dando un
senso e un valore al vivere nei singoli paesi, si potranno creare le condizioni
perché la Carnia diventi terra di elezione, un luogo nel quale si sceglie di
continuare a vivere o di tornare a vivere.
Ma se l’abbandono dei
paesi è derivato soprattutto dall’abbandono delle donne, è necessario ripartire
da loro. Fortunatamente l’occupazione
femminile nelle fabbriche è molto diffusa. Ma non basta. È necessario ricreare
le condizioni perché i paesi siano vivibili soprattutto dalle donne, nel ruolo
di madri.
Il richiamo a tornare
potrebbe venire dai paesi-nido, cioè da paesi nei quali si sono trovate soluzioni
ideali sia dal punto di vista organizzativo che economico per l’assistenza all’infanzia,
dall’asilo nido nella forma delle Tagesmutter, alle scuole elementari flessibili.
I terreni incolti, non
più lavorati dalle donne, che, oltre a
non portare degli utili, ora deturpano il paesaggio, possono tornare al ruolo
storico di beni collettivi, utilizzati in forme consorziate, con ricadute vantaggiose
per i residenti. In un ambiente bello da vedere, in paesi rianimati
dall’empatia prima ancora che dai servizi, per questo diventati “comunità di
paese”, sta la chiave per superare la crisi, per arrestare la frana
demografica.
E
non è detto che non si possa finalmente anche imparare a vendere questa
bellezza naturale per fare turismo, una attività per la quale tuttavia è
necessario cambi alla radice l’atteggiamento dei Carnici verso i “foresti”. Nei
paesi comuni-serrati della storia si guardava con ostilità e si cercava di
penalizzare ogni nuovo arrivato. Sembra
quasi che questo atteggiamento abbia lasciato traccia sino ai giorni nostri, e
non è certo compatibile con una cultura che dovrebbe favorire lo sviluppo
turistico.
Anche su questo versante
sarebbe necessario un cambiamento radicale per introdurre, a partire dalla
scuola, quello spirito d’accoglienza diffuso nella popolazione, che fa d’un
territorio un luogo ideale per la vacanza. Occorre uno spirito nuovo che, messo
in rete attraverso un sistema di Alberghi diffusi sull’idea del poeta Leo
Zanier, o di B&B, la moderna versione degli affittacamere a cui pensava
Enzo Moro, l’ideatore del polo turistico della Zoncolan, cambierebbe, anche per
i residenti, il clima sociale e la vivibilità del territorio.
Ma con queste ultime
parole si deborda dalla storia nella politica. Non resta che chiudere con
l’auspicio che sia proprio la politica a individuare le modalità attraverso
le quali il domani della storia della
Carnia, si caratterizzi per un modello economico e sociale che aiuti ad
apprezzare il fascino del vivere in montagna, creando le condizioni perché si torni
ad amare la Carnia.